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Roma, collaboratore di giustizia sullo spaccio di cocaina: “Ecco come torturarono Giombini”

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Cocaina

C’è un equilibrio precario nella malavita romana e si è spezzato per un carico di droga. Centosette chili di cocaina hanno gettato il seme della discordia tra i narcotrafficanti romani e rivali del clan albanese, che controlla le principali piazze di spaccio a Roma. Tra queste c’è San Basilio dove Fabrizio Campogna, libero da clan e bande criminali, ha agito indisturbato per anni come fornitore di stupefacenti. È lui il collaboratore di giustizia che sta facendo venire a galla le tensioni tra i narcos della Capitale.

La più importante scorre col sangue di Gualtiero Giombini, un 71enne che per conto di Leandro Bennato doveva custodire i 107 kg di cocaina. La droga però è scomparsa nel nulla e il boss, convinto che si tratti di uno sgarro del clan albanese, ha scelto di farlo torturare brutalmente.

Chi è Fabrizio Campogna, il collaboratore di giustizia che svela il narcotraffico a Roma

Campogna, 39anni e in affari con la mafia cinese, si inserisce in questo spaccato di criminalità come intermediario tra il fuoco incrociato dell’asse Bennato-Molisso e gli albanesi. Lui, un “freelance” della droga, è rispettato dai boss seppur indipendente dalle correnti criminali dello spaccio. Le strade di Campogna e Bennato si incrociano nel 2010, quando si incontrano in una clinica per tossicodipendenti. Poi, di nuovo, nel 2013 in carcere e infine al bar La coltellata di San Basilio, zona che Campogna conosce fin troppo bene. Leandro Bennato è conosciuto a Roma, una parte della sua storia lo vede inizialmente come sospettato per l’omicidio del “Diabolik”, accusa poi archiviata.

Quanto a Campogna, invece, ogni tanto i suoi giri lo portano a rifornirsi da Lolli, del clan albanese, perché rispetto ai rivali non vogliono anticipi sulla merce, comprata in Belgio e Olanda, importanto fino a 80-100 chili a settimana di cocaina. Per anni Campogna si muove indisturbato, tutto questo prima che Bennato e il camorrista Molisso decidono di muovere guerra contro il clan degli albanesi. Ci finisce in mezzo soprattutto Giombini, ex complice a cui rubano la cocaina, come racconterà allo stesso Campogna. “Non so come fa, senti pure tu, prendi informazioni”, scriveva al broker dopo essere stato derubato. La storia però non convince Bennato, che decide di torchiare l’ex complice, come racconterà lo stesso Campogna nel primo suoi tre interrogatori, in parte omissati, ai pm Francesco Cascini e Giovanni Musarò.

Gli equilibri precari tra i narcos romani: “lo scavalco” del clan albanese

Il boss Bennato e il socio, Giuseppe Molisso, in effetti tentano più volte di portare dalla loro parte Campogna. L’influenza albanese per loro è scomoda anche su un cane sciolto. “Mi chiedevano: ‘A che prezzi stai?’ Che stampo hai?’”, facendo riferimento al marchio che rende riconoscibili i panetti di cocaina, “Perché preferisci fa mangià gli albanesi?”. Le intimidazioni cominciano lentamente, ma un giorno diventano eloquenti per il 39enne.

Durante un incontro per dare a Bennato 20 kg di droga e 360mila euro, Campogna si ritrova davanti due persone con una pistola e un Ak47. Prendono tutti i soldi, ma gli consegnano solo metà della cocaina, 10 chili invece di 20, dicendogli di doversi vendicare dei Lolli per uno “scavalco”, un cliente rubato. “Non ce l’abbiamo con te”, spiegheranno, “Ma con quel pezzo di merda”. Molisso, racconterà, tenta di capire persino dove gli albanesi scaricano gli stupefacenti, per razziare tutto il camion

Tregua ristabilita, basterà poco perché scoppi di nuovo una faida tra i due clan. La miccia esplode quando scompariranno i 107 kg di cocaina, acquistata dai potenti “Aldo e Renato”, facenti capo agli albanesi. Da lì, racconterà Campogna, Bennato cercherà vendetta rapendo Giombini: si parla di almeno 2 milioni di euro persi di cocaina. Giombini, racconterà del 71enne nudo, in una cantina umida, “c’aveva lo scotch in bocca, stava su una sedia, gli mettevano gli spilli dentro le unghie e lui strillava, si lamentava, però non poteva gridare forte perché era imbavagliato”, dirà il 39enne alla Procura. Morirà l’8 dicembre per complicazioni da polmonite.  “Ma non erano amici?”, gli chiederà il pm durante l’interrogatorio, ma il collaboratore di giustizia non ha dubbi, “Quando ce stanno due milioni di euro di mezzo, l’amicizia finisce se non si pagano”.

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