Roma. La ‘ndrangheta è riuscita quindi a creare una filiale criminale nella città Eterna, colei che tutti vorrebbero assoggettare al giogo malavitoso, perché cuore del poter politico e statale. Il gergo comune dei malavitosi, detta filiale, la definiscono ”un locale”, intesa come filiazione diretta della mafia calabresi. Un dominio esterno, un bandierina fissata anche a Roma, da cui continuare a tessere i propri giri.
La svolta della ‘ndrangheta a Roma
E non si tratterebbe dei soliti boss di una volta, quelle forti personalità singole che agiscono per proprio conto, creando imperi di singoli. Anche la mafia si evolve. Anche la mafia diventa ”liquida” e si adatta al nuovo mondo. L’avanguardia della colonizzazione mafiosa è composta dalla coordinazione di esponenti dell’intera cupola ‘ndranghetista all’intero della città. Dunque, niente dislocamenti e azioni autonome, ma un intero sistema espatriato e continuamente in comunicazione con il potere centrale.
Le indagini della procura e le intercettazioni
La recente operazione della procura capitolina in collaborazione con quella di Reggio Calabria (per un totale di 38 arresti e 5 ai domiciliari nel Lazio), rivela una preoccupante e costante avanzata dell’organizzazione mafiosa calabrese anche nella Capitale. Ancora una volta gli elementi sfruttati sono la crisi delle famiglie, e la pandemia stessa. Fessure sociali attraverso le quali s’infiltra la rabbia e il malcontento, e dove è più facile agire e inserirsi.
La diarchia romana: Alvaro e Carzo
Sempre le indagini, come riportato anche da Repubblica, rivelano la presenza al vertice di ”due capi”, anche questo dato senza precedenti, sintomo di un adattamento alla città: Vincenzo Alvaro, molto noto, diventato celebre per essere il titolare del Café de Paris in via Veneto. Il celebre locale era il simbolo della Dolce Vita per molti e venne già sequestrato nell’anno 2009. Secondo i pubblici ministeri lo impiegavano per ripulire il denaro.
Solamente due anni più tardi, lo stesso Alvaro finì in carcere per intestazione fittizia con aggravante mafiosa, ma poi processi e appelli caddero, e ritornò nuovamente in libertà. Le contestazioni dichiarano che avrebbe ripreso tranquillamente il suo giro, con bar, ristoranti e locali, un giro di affari che sembrerebbe essere incrementato proprio grazie alla pandemia, mentre molti altri finivano sul lastrico.
L’uomo della tradizione
Il secondo capo locale sarebbe, invece, Antonio Carzo, rinomato come ‘Ntoni Scarpacotta, mossosi sempre nell’ombra della città. Anche lui, come il collega, è cresciuto nella provincia di Reggio Calabria, i loro stessi padri, come riporta ancora Repubblica, sono stati processati insieme per associazione mafiosa. Lui è ”l’uomo della tradizione”, capo vecchio stile con il vecchio metodo. Ha già scontato il carcere duro del 41bis, poi dopo si è trasferito a Roma.
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Le intercettazioni
A rilevare un’inquietante cronologia di eventi, sono state proprio le indagini di Stefano Luciani, Francesco Minisci e Giovanni Musarò con gli investigatori della DIA. Secondo le loro ricerche, la colonia mafiosa a Roma si sarebbe trasferita nel 2015 e nell’ottobre 2017 consacrata in una ”mangiata” di rito. In questa occasione sarebbero stati trasferiti gli incarichi per le operazioni sul territorio. Le intercettazioni riportate da Repubblica fanno parlare proprio i partecipanti di quella cena, in cui viene detto: “Abbiamo fatto alcuni movimenti, abbiamo fatto tante cose”.
La cronologia degli eventi
In quell’anno, infatti, si era creato un vero e proprio vuoto di potere nella città Eterna. Le retate della procura, guidata al tempo da Giuseppe Pignatone, erano riuscite a detronizzare i ”quattro re” che controllavano la metropoli: Massimo Carminati, Michele Senese, i Casamonica e il clan Fasciani. Qui, dunque, decide di inserirsi la ‘ndrangheta per fare definitivamente il salto di qualità.
Le intercettazioni riportate anche da Repubblica, evidenziano il grosso livello di penetrazione ormai della colonia all’interno del territorio. “Prima che arrivassi io tutta questa cosa bella non c’era” dice Carzo descrivendo il suo progetto. ”Prima c’erano insomma tanti calabresi, ma tutti sparpagliati. Ora invece “siamo una carovana per fare una guerra”, risponde entusiasta Alvaro.
Cambia il metodo: mentalità imperialista
Cambia il metodo, e cambia anche la mentalità, che ora sembra avere delle caratteristiche spiccatamente imperiali. Non si parte più dalla strada, come ad esempio il dominio dei quartieri, del racket e dello spaccio, ma direttamente dagli affari. Alvaro, per questo è l’uomo giusto a quanto pare: abilissimo nel commercio e nel macinare profitti, con la suo fianco una schiera di alleati ideali, tra cui commercialisti che mettono a posto i conti e, probabilmente, qualche dirigente di una filiale della Banca popolare di Milano. Questi, oltre a manomettere il denaro e fare bonifici, è in grado anche di avvisare su eventuali accertamenti chiesti dalle forze dell’ordine.
L’inchiesta anche sui processi
Inoltre, Alvaro ha imparato la lezione del Cafè Paris: ora evita lussi e sfarzo, lavora in incognito da mattina a sera e i muove nell’ombra, evitando i quartieri centrali e le zone più gettonate. Non c’è nessun dubbio, per i pm, Alvaro è uno che conta e la maggior parte sa chi rappresenta. Ad ogni modo, ora, l’inchiesta portata avanti da Roma lancia un forte allarme su come i clan riescano non solo ad insediarsi in città, ma anche a sfuggire ai processi grazie alla loro lentezza. Così, la ‘ndrangheta si insedia nella Capitale e a poco a poco sta colonizzando tutto il Paese.