Di loro ho saputo quando ero molto piccola. Ricordo di me e mia madre, insieme, mano nella mano. Era luglio, abitavamo ancora in Sardegna e mi portò a camminare in spiaggia, a Platamona. Con grande delicatezza mi raccontò di lei e papà, dei loro primi matrimoni e dell’esistenza di due fratelli grandi, figli del primo legame di mio padre.
Fu scioccante! Non tanto per il pensiero di entrambi con altri partner, ma tanto perché, secondo la mia testolina, avrebbero dovuto rendermi partecipe dell’esistenza dei miei due fratelli molto prima. Impossibile. Ma in quel momento, ovviamente, non potevo capirlo. Chiesi subito dove fossero e mi fu spiegato che non era possibile vederli perché vivevano molto distanti, ma che, un giorno non troppo lontano, avrei potuto sicuramente cercarli e incontrarli.
Che vivessero troppo lontani era una bugia. La verità era un’altra, ma preferisco tenerla per me, insieme a molti altri dettagli – per voi insignificanti – di questa storia.
Dal momento in cui ho saputo, non c’è stato un solo giorno in cui non abbia pensato a loro; non ero figlia unica, non ero sola!!! Fantasticavo su come potessero essere, quale fosse il loro film preferito, il colore delle magliette che utilizzavano più spesso, la musica che ascoltavano, i pensieri che facevano.
Durante l’adolescenza provai a chiedere di loro svariate volte, non ai miei che poco sapevano, ma ad altri parenti. Mi fu detto che era meglio lasciar perdere, che “meglio non svegliare il cane che dorme”. Ero troppo piccola per comprendere, ma accettai, mio malgrado e fu così fino all’era di Facebook, dove cercare una persona divenne più semplice del bere un bicchier d’acqua.
Ve la faccio breve, per quanto possibile ovviamente. Il più grande dei due sapeva di me, era stato informato. Il piccolo no, e data la sua ipersensibilità – identica alla mia – mi fu consigliato di contattarlo sì, ma con molta prudenza. Fu estremamente difficile; non volevo scioccarlo né tantomeno spaventarlo, così, lo avvicinai mentendogli e facendogli credere che fossi una cugina di quindicesimo grado – o giù di lì. Iniziammo a dialogare di parentele ipotetiche, così per circa cinque giorni, fino a quando non sbroccai confessandogli la verità. Lo feci in modo del tutto inappropriato ed impulsivo: «Io sono tua sorella.». Delicata, per niente. Il dialogo avvenne tramite MSN, una chat istantanea molto in voga nel primo decennio del duemila. Ricordo bene; dopo la mia affermazione rimase sconvolto, non proferì parola. Tagliò il mio discorso, le mie inutili scuse e spense il computer. Piansi tutta la notte, fino a quando non vidi nuovamente il sole. Ero convinta di averlo perso, di nuovo, ma non fu così. Appena accesi il computer trovai la sua chat aperta con su scritto: «Ora che ti ho trovata, sorellina, non ti lascerò più.».
Dopo due mesi di videochiamate, sms, telefonate e anche segnali di fumo – io e lui ci sentivamo ogni giorno, più volte a giorno – era qui, a Genova, insieme a me. Il giorno dopo arrivò anche il nostro fratello più grande con la sua fidanzata.
Furono le 48 ore più intense della mia esistenza. Ricordo ogni dettaglio di ogni ora di quelle che giornate. Ricordo anche com’erano vestiti. Il loro odore era familiare, abbracciarli era casa, e vedere mio padre al loro fianco, dopo trent’anni di rimorsi e croce sulla schiena, fu uno dei regali più grandi che la vita potesse farmi. Sono stati pochi gli altri i giorni che mi hanno emozionata in egual modo, e forse non esistono nemmeno. Forse me li invento per difendermi dal dolore. Lieto fine? No. Non c’è. Perché come in qualsiasi favola che si rispetti subentra sempre la cattiveria che si mette di mezzo ai buoni intenti e in questo caso rovinando tutto, creando problemi, intralciando il cammino di conoscenza. Dopo un annetto e mezzo abbiamo interrotto i contatti. Io non ho fatto nulla perché non accadesse, anzi, tutt’altro. Nonostante questo, entrambi, sono sempre nei miei pensieri, soprattutto il più giovane dei due.
Poco fa cazzeggiavo su Facebook. Leggevo status e guardavo foto e così, senza nemmeno rendermene conto, da un momento all’altro, ho compiuto lo stesso gesto di 7 anni fa. Ho cercato i loro nomi tra i milioni di iscritti di questo social network, per la seconda volta nella mia vita.
Il grande è sempre lì, reperibile con estrema facilità. Il piccolo no; lui è come me, si deve sempre differenziare. L’ho scovato tra gli amici del maggiore, ma solo grazie ad una strana coincidenza. Non ha una foto profilo che lo rende riconoscibile e si nasconde tra i contatti con un nome falso che mi ha colpita profondamente – e solo per questo mi sono soffermata sul suo profilo – perché mantra della mia quotidianità. Il suo nickname è una frase che ripeto ogni giorno, che per me ha un grande significato e se lui la conosce è certo che anche per lui sia così. Questo mi ha emozionata.
È strano. Abbiamo in parte lo stesso sangue ma praticamente non ci conosciamo. Di noi non ricordiamo nemmeno l’odore, nemmeno la voce, forse a malapena la gestualità. Non ci sentiamo da cinque anni, non ci vediamo da sei, eppure, senza saperlo, io e uno dei miei fratelli, siamo legati dallo stesso identico cammino di vita. Non so perché ho parlato di tutto ciò in questo contesto forse inappropriato, non so nemmeno quanto e come ho scritto; l’ho fatto di getto. Forse la mia intenzione è quella di dimostrare a chiunque abbia letto questa storia che è vero!! È proprio vero! Non importa quanto siano lontane certe persone, non importa cosa ci sia in mezzo a loro. Non importa che siano fiumi, mari o oceani di incomprensioni.
Certi legami vanno oltre qualsiasi legge fisica. Certi legami nascono per sopravvivere e non s’interrompono. Mai. Nemmeno quando sembra che siano andati persi e nemmeno quando sembrano devastati. Nemmeno quando per distruggerli, viene utilizzata come arma tutta la malignità di questo mondo.
Io, vi voglio bene.