È passato un anno esatto, da quel 31 luglio 2022, l’ultimo giorno in cui si hanno notizie di Père Moise, sacerdote congolese, missionario della Consolata, morto in circostanze ancora da chiarire. Un anno che i familiari, tra cui Jacob Nyanja, ingegnere, cittadino italiano, hanno trascorso alla ricerca della verità, senza riuscire a trovare risposte alle lecite domande fatte.
Un prete che scompare per 10 giorni, una morte misteriosa, 10 fratelli e due genitori che cercano ormai da 12 mesi di scoprire la verità, andando però a sbattere contro muri di gomma. Un’omertà che non trova ragioni plausibili e che rende il dolore della perdita ancora più acuto. E allora l’estremo tentativo: otto mesi fa la famiglia ha cercato di arrivare al Santo Padre, Papa Francesco, per chiedere a Lui di fare luce su quanto accaduto a quel sacerdote 42enne morto in chissà quale maniera, visto che non soffriva di nessuna malattia. Ma anche questo tentativo è andato a vuoto, almeno finora.
No, non è la trama di un film, ma il dramma che sta vivendo la famiglia Mbabaye, con Jacob Nyanja, insieme ai suoi 9 fratelli, da quando ha saputo della morte di Père Moise, suo fratello maggiore, prete missionario della Consolata.
La storia di Moise
Tutto ha inizio nel 2021. Moise vive un periodo difficile, forse dovuto a una crisi interiore. Per questo decide di lasciare il Congo per andare in Sudafrica, dove vive una delle sue sorelle. La crisi lo porta anche a un passo dalla rinuncia ai voti. Prende una pausa dalla Congregazione, cerca conforto nella famiglia.
A gennaio del 2022 la Consolata lo richiama e gli propone di stare in Sudafrica come prete, ma solo dopo aver imparato l’inglese, che Moise non conosce bene. Vogliono affidargli una parrocchia. La congregazione a cui appartiene decide quindi di richiamarlo in Congo per poi inviarlo in Kenya, dove potrà imparare l’inglese. L’accordo è di rimanerci per sei mesi: una volta che avrà sufficiente padronanza della lingua, verrà trasferito nel paese dove vive la sorella, per dargli quella tranquillità di cui sembra avere bisogno.
Moise trascorre i primi mesi dell’anno in Congo e il 10 giugno 2022 si trasferisce a Langata, un quartiere di Nairobi, nel seminario dei missionari della Consolata. E inizia a studiare inglese presso Consolata Language Centre, sempre a Langata. “Era felice – racconta Jacob – L’avevo visto a maggio, in Congo. Era eccitato all’idea di andare in Kenya per imparare l’inglese e trasferirsi poi in Sudafrica, dove vive nostra sorella. L’ho visto nuovamente pieno di entusiasmo, non parlava più di abbandonare la toga”. Inizialmente tutto sembra andare per il meglio, ma già dopo qualche settimana le cose cambiano. A metà luglio, infatti, i suoi superiori gli comunicano che, terminati i 6 mesi di formazione, resterà in Kenya, invece di andare in Sudafrica come inizialmente detto.
I disaccordi
Da quel momento l’umore di Moise cambia, secondo la testimonianza di tutti i suoi familiari. “Mia madre mi ha riferito che, ogni volta che chiamava a casa, piangeva. Diceva che lo trattavano male, che gli avevano mentito, che gli avevano detto di andare in Kenya per studiare, invece adesso lo volevano far rimanere lì per sempre. Si sentiva tradito. Addirittura, nell’ultima telefonata a mia madre, il 30 luglio, le ha detto ‘Qui non mi vogliono bene, me la sto passando male’, poi non lo ha più sentito”, racconta Jacob. Ma l’ultima a sentire Moise è stata la sorella che vive in Sudafrica, Judith Mutudu, il 31 luglio alle 5 del mattino.
“Quel giorno – racconta Jacob – Moise era andato alla festa di alcuni ragazzi che celebravano il noviziato. Grazie alla telefonata fatta a mia sorella sappiamo che dopo quella festa Moise è rientrato in seminario alle 17:00. Ma cosa sia successo successivamente è un mistero”.
La scomparsa
Dopo il 31 luglio Moise scompare. Di lui si perdono completamente le tracce. E nessuno, all’interno della Congregazione, lo cerca. Nessuno, nel “pensionato” dove vive, si chiede che fine abbia fatto quel giovane prete. A nessuno, tra i sacerdoti o tra gli insegnanti d’inglese, sembra strana la sua assenza. I parenti, chi in Congo, chi in Sudafrica, chi in Italia, per qualche giorno sono tranquilli. Sanno che stare anche una o due settimane senza telefonate rientra nella norma, quindi nessuno si preoccupa. Ma il 5 agosto un amico di famiglia chiama Jacob dal Canada, per chiedergli notizie di Moise. “Risulta scomparso da Nairobi dal 1° agosto”, gli riferisce.
“Ci siamo allarmati e ci siamo chiesti: come mai la Congregazione, non ha chiamato i familiari per informare l’accaduto? A quanto pare, la notizia della sua scomparsa trapelata perché i seminaristi congolesi che vivono lì con lui non lo vedevano dal 31 luglio e dopo un paio di giorni si sono preoccupati. Hanno iniziato a chiedere in giro e a spargere la notizia della scomparsa ma, stranamente, i preti erano indifferenti a tutto questo. Nessuno, infatti, si è mosso per cercare di capire cosa fosse successo o per contattare noi familiari e avvisarci della scomparsa di Moise”.
Le stranezze
Jacob riceve altri messaggi da parte di amici, che lo mettono in ansia. Ma solo il 10 agosto riesce, attraverso un messaggio WhatsApp, a entrare in contatto con i sacerdoti della congregazione, ai quali dice di aver saputo della scomparsa del fratello. “Mi hanno risposto che Moise era uscito il 1° agosto e aveva lasciato la sua camera in ordine, con il letto fatto, e non era più tornato, senza avvisare. Ma proprio questo particolare mi ha fatto scattare un campanello di allarme. Gli ho infatti risposto che era assurdo che, visto che era sparito per tutto questo tempo, non lo avessero cercato e non avessero avvisato la sua famiglia”.
Perché i preti della congregazione non cercano Moise? Perché non avvisano la famiglia della sua sparizione? Perché in realtà sanno benissimo dov’è e cosa gli è successo o perché a loro non interessa che fine abbia fatto, nonostante a Nairobi già dal 2 agosto tutta la città vocifera della sua scomparsa?
Le foto shock
Il giorno dopo il messaggio, l’11 agosto, sul profilo Facebook di un altro fratello di Moise, che abita a Verona, arrivano delle foto che tolgono ogni speranza. Foto scioccanti, in cui il 42enne viene ritratto senza vita, nella camera mortuaria pubblica di Nairobi. Mittente una donna, che scrive “Tuo fratello è stato portato in questa camera mortuaria verso le 3 del mattino del 2 agosto dalla polizia di Ongata Rongai (quartiere di Nairobi, non lontano da Langata, ndr)”.
Secondo le regole di questa camera mortuaria, dopo 10 giorni che un corpo si trova lì senza che nessuno si presenti, viene seppellito. “Il corpo di mio fratello stava per fare la stessa sorte”, racconta Jacob. “Per fortuna è stato notato che Moise portava ancora con sé un braccialetto con incisa la bandiera del Congo, quindi hanno pensato di fargli delle foto e far girare ai congolesi del posto. È così che la storia si è saputa, altrimenti nessuno avrebbe mai scoperto che fine aveva fatto Moise”.
A questo punto, però, ci sono voci discordanti. Qualcuno dice che Moise sia stato trovato morto in strada, nei pressi di un night club. Altri che è stato raccolto per strada da un motociclista e portato vivo dalla polizia perché era molto debole, quindi che sarebbe morto in caserma. Altri ancora sostengono che Moise sia stato ucciso nel seminario: la tesi della morte davanti a un night club a Ongata Rongai, quartiere molto popolato e ad alta densità di congolesi, per poi scomparire pare essere altamente improbabile soprattutto ai congolesi. Senza contare che il suo abbigliamento non era certo da frequentatore di night: pantaloni della tuta e una semplice camicia a quadri, di certo non elegante.
Il riconoscimento del corpo
Dietro insistenza dei familiari, finalmente il 12 agosto il padre superiore del seminario, padre Peter Makau, insieme a un altro prelato, si reca nella camera mortuaria per riconoscere il corpo, invitando alcuni congolesi del posto. “Le foto giravano sui social già da 3 giorni e noi le avevamo ricevute il giorno prima”, racconta Jacob. “Alle nostre richieste insistenti, alla congregazione hanno detto di aver domandato alla polizia già verso il 5 agosto, ma di non aver avuto riscontro”. Cosa alquanto strana, visto che, secondo quanto detto dagli addetti alla camera mortuaria, a portare Moise lì sarebbero stati proprio i poliziotti.
Al momento del riconoscimento, padre Peter Makau aveva con sé i documenti di Moise: sia il passaporto che l’Allien Card, ovvero il permesso di soggiorno keniota. Chi glieli aveva dati? E perché, quando il corpo del 42enne doveva essere rimpatriato in Congo, è stato bloccato dal servizio immigrazione proprio per mancanza di questi due documenti?
La ricerca della verità
Cosa è successo veramente tra il 1° e il 2 agosto? Come è morto davvero Moise? Nessuna autopsia è stata effettuata sul suo corpo per stabilire le cause del decesso. Ma alcune foto, scattate al momento del ritrovamento del corpo, mostrano una vistosa chiazza di sangue a terra. E si vede benissimo del sangue anche nei pantaloni di Moise, all’altezza della coscia sinistra.
Jacob, così come i suoi fratelli, dal momento in cui ha saputo della scomparsa di Moise non ha più avuto pace ed è alla ricerca della verità. “Dopo delle ricerche personali, sono riuscito ad avere il contatto di un poliziotto kenyota, responsabile della stazione di polizia di Ongata Rongai. Quando l’ho contattato per chiedere informazioni, mi ha risposto: “I preti sono informati su tutta l’indagine, vada da loro”. E così ho fatto: ho chiesto a loro. Ma, dopo la prima conversazione in cui facevo domande su mio fratello, ci hanno bloccato su tutti i canali, tranne padre Peter Makau, che legge i messaggi e non risponde”. Jacob si è quindi rivolto anche al Superiore Generale, Padre Stefano Camerlengo, che sta a Roma. “Lui sì, risponde, ma solo per dire che non sa niente. Non so se sia diplomatico o se realmente non sa niente. Tutto questo è frustrante”.
Le indagini della polizia
Attraverso la polizia, Jacob scopre che, attraverso il tracciamento del telefono di Moise, in realtà il 42enne in realtà era uscito dal seminario verso le 23 per recarsi a Ongata Rongai e il suo telefono è rimasto tracciato in quella zona tutta la notte. Poi, verso le 11 del 1° agosto, il suo telefono è stato segnalato nel seminario. Dopodiché, verso le 14, viene nuovamente tracciato a Ongata Rongai e resta lì per tutto il pomeriggio per poi spegnersi verso le 22.
Questo il racconto del poliziotto quando Jacob lo accusa che il fratello sia morto in commissariato: “Verso le 22:30, un tassista lo ha visto per strada che continuava a cadere e rialzarsi, come se avesse bevuto, ma non ci ha fatto caso. Verso le 3 di notte, questo tassista rientrava dal lavoro e lo ha visto nello stesso posto, stavolta sdraiato e immobile, ci ha chiamati e lo abbiamo trovato morto”. Ma perché spegnere il telefono mezz’ora prima? Moise è rimasto in seminario almeno fino alle 11, avrebbe avuto tutto il tempo di ricaricare la batteria.
“Ho chiesto al poliziotto se aveva ricevuto dei video di sorveglianza da parte dei sacerdoti, ma mi ha detto di no, ribadendomi di non aver potuto visionare niente. Eppure il padre superiore del seminario afferma di aver consegnato tutto alla polizia. Inoltre c’è un’enorme discordanza di orari tra quanto racconta Padre Peter Makau e quello che dice la polizia”.
Le foto truccate e i video mancanti
Jacob, dopo molte insistenze, riesce ad avere dalla polizia 4 foto del corpo del fratello, scattate sul luogo del ritrovamento. Ma sono palesemente ritoccate e ripulite. Nonostante questo si vedono la chiazza di sangue a terra e le macchie di sangue sui pantaloni.
“Mi sono arrabbiato tantissimo, ho chiamato Padre Stefano Camerlengo, il superiore generale dei missionari della Consolata, gli ho detto delle foto e gli ho chiesto perché sono così tranquilli e indifferenti, quando tutto fa capire che c’è qualcosa di molto strano nella morte di mio fratello. Lui mi ha detto che era in viaggio, di aspettare un paio di settimane. Gli ho spiegato che vogliamo i video di sorveglianza del seminario dal 31 luglio al 2 agosto. Ma 2 settimane fa mi ha richiamato per informarmi che, dopo un mese, i video di sorveglianza si cancellano automaticamente, quindi in Kenya non hanno più quei video. E ha concluso con un semplice “Mi dispiace Jacob, pregherò per voi”. Ma… non voglio preghiere, voglio la verità!”
Jacob chiede a Camerlengo: “Padre, da superiore generale, dopo un evento del genere nella Sua congregazione, ha mai chiesto o visto quei video di sorveglianza? Mi ha risposto: “No, mi fido dei miei confratelli“. Com’è possibile, dopo un evento del genere, cancellare i dati senza salvarli? Perché non sono stati consegnati alla polizia o ai familiari quando sono stati richiesti? Si sta nascondendo qualcosa? Perché tutto questo ostracismo sin dall’inizio?
Le ipotesi
Perché è morto Moise? Un malore? È stato ucciso? E da chi? Quando è morto esattamente? Sulla tomba è stato scritto 2 agosto, ma la data è quasi sicuramente sbagliata. “Il 1° agosto non ha partecipato alla preghiera del mattino con i suoi confratelli. Padre Peter ha dichiarato che gli aveva riposto di essere stanco dalla festa del giorno prima. Mio fratello che rientra alle 17:00, dorme e non riesce ad alzarsi la mattina dopo per stanchezza: mi sembra molto strano”.
Che sia stato avvelenato? Che ci sia stato un litigio, che abbia portato poi in qualche modo alla morte del giovane prete che, ricordiamo, era in perfetta salute? Un’altra ipotesi potrebbe essere l’arresto da parte della polizia perché senza documenti: la polizia potrebbe aver comunicato l’arresto al seminario, ma nessuno è andato a recuperarlo. La successiva morte, magari anche per un malore, potrebbe porterebbe all’omertà e alle contraddittorie versioni sia della polizia che dei prelati.
L’appello al Papa
“L’ultima nostra speranza è l’intervento di Papa Francesco, lui è l’unico che può aiutarci”, afferma Jacob. In Africa non si può andare contro preti e poliziotti. E in questa storia ci sono entrambe le figure. L’Ambasciata del Congo in Nairobi ha rifiutato di muoversi, i giornali locali anche- “Spero che, attraverso voi, il Papa venga informato di questa storia. Sono triste per mio papà, quest’uomo rimasto in centro Africa, che ha ricevuto il corpo di suo figlio morto senza nemmeno conoscere la data esatta o la causa della sua morte”.
Jacob, oltre ai video di sorveglianza, vorrebbe avere i dati del telefono di Moise: la polizia li ha tracciati e alla Consolata dovrebbero averli, insieme alle ultime chiamate fatte da suo fratello. “Purtroppo in Kenya non vogliono aiutarci, anzi, stanno nascondendo e cancellando ogni pista. Vorremo che il Vaticano ascolti i nostri pianti”. Papa Francesco, questo appello è per lei: può ascoltarlo e dare sollievo a questi fratelli?
Nessuna accusa, solo la ricerca della verità
“Non stiamo accusando nessuno, ci tengo a precisarlo – specifica Jacob – Vorrei solo capire cosa è successo veramente. Noi familiari stiamo cercando risposte su fatti concreti. Fatti che, sono sicuro, porterebbero a galla la verità. Ad oggi, dopo 12 mesi, non abbiamo ancora nulla di concreto. Perché ci sono stati negati i video delle telecamere di sorveglianza, dicendo – dopo 4 mesi – che erano stati cancellati dopo un mese? Perché i poliziotti non hanno comunicato la morte di mio fratello, quando hanno trovato il suo corpo e lo hanno portato nella camera mortuaria, la notte del 2 agosto? Sono domande legittime a cui vorremmo risposte. Solo così potremmo dare finalmente un senso alla morte di Moise”.