No. Non fu un incidente. Quella del traghetto a Livorno 30 anni fa, è stata una strage mascherata da incidente. Come tante in questo paese. E per definirla così abbiamo atteso tutto questo tempo perché qualcuno, come sempre quando in Italia accadono cose come queste, gioca a coprire le responsabilità. Gioca al mistero. Gioca con le famiglie dei morti e con il ricordo di quei morti.
Era la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 quando il traghetto della Navarma deninato Moby Prince, diretto a Olbia, andò misteriosamente a sbattere contro una fiancata della petroliera Agip Abruzzo, ancorata in rada fuori dal porto di Livorno. Nel rogo innescato dallo scontro morirono 140 persone, tra equipaggio e passeggeri, a bordo del Moby Prince. Si salvò in maniera del tutto rocambolesca il mozzo Alessio Bertrand.
L’incendio fu causato dall’attrito tra le lamiere e dal petrolio che si era riversato sul traghetto dopo aver colpito la cisterna della petroliera. Ma le fiamme non avvolsero immediatamente tutto il Moby Prince. Per cui è certo che le persone non morirono quasi subito, ma dopo ore e ore di agonia e di speranza di aiuto. Un aiuto che non arrivò mai.
Gli inquirenti hanno cercato di dar la colpa al comandante. Hanno parlato di errore umano
Hanno sospettato che chi governava la nave con il suo carico umano di vite, invece che guardare gli strumenti di bordo guardasse Juventus-Barcellona alla tv. A una tv che non c’era però. Hanno parlato di nebbia che avrebbe impedito al traghetto di vedere la petroliera, ma quella notte d’aprile il cielo sopra Livorno era sereno, la visibilità ottima e il mare calmo.
E poi come sempre, un nugolo di perizie senza senso, una fila di testimoni chiave ignorati e finanche un tentativo di manomissione del timone del relitto giorni dopo quando tutti erano sopra per i rilievi.
Una montagna di carte tra processi e archiviazioni e poi una commissione di inchiesta parlamentare, instituita dall’allora presidente del Senato Aldo Grasso, ma ottenuta grazie al grande impegno delle associazioni dei familiari delle vittime. Una commissione che ha da qualche mese stabilito che la collisione non è stata dovuta alla presenza della nebbia e tantomeno alla condotta colposa del comandante del traghetto, ma che ha puntato il dito senza mezzi termini sulle indagini della Procura di Livorno e l’approssimazione della Capitaneria di porto durante le operazioni di soccorso con la conseguente morte di alcuni passeggeri molte ore dopo la collisione.
A Livorno oggi unq serie di manifestazioni e commemorazioni ricorderanno quella notte maledetta. Mentre in libreria è da qualche tempo un bellissimo libro-inchiesta, molto dettagliato dal titolo: “Il caso Moby-Prince” (Chiarelettere – Misteri italiani) scritto da Francesco Sanna e Gabriele Bardazza, un’opera ricca di contenuti molto importanti e che ha la grande qualità di andare al punto, anzi ai punti che non tornano nella verità ufficiale che ha consegnato o meglio, ha cercato di consegnare alla storia quella strage mascherandola da incidente.
Noi de Il Corriere della Città abbiamo incontrato uno degli autori, Francesco Sanna, per cercare di sapere di più di quella notte tragica e del calvario dei familiari delle vittime alla ricerca di chi fossero i colpevoli. Perché in questa storia i colpevoli ci sono eccome.
Per prima cosa, Francesco, vorremmo tutti sapere che notizie ci puoi portare riguardo allo stato di salute di Loris Rispoli, fratello di una delle vittime e da sempre in prima linea con le associazioni dei familiari nella ricerca della verità.
Loris è in un centro di riabilitazione dopo quanto gli è accaduto. Dobbiamo solo continuare ad augurarci che tutta la tenacia messa in trent’anni sul Moby Prince possa riversarla nel riprendersi la sua vita. E’ un leone.
Mi ha molto colpito una questione che appare quasi a margine di questa vicenda: parlo dei tentativi di manomissione del timone durante i sopralluoghi sul relitto. Cosa determinano secondo te e perché a tuo modo di vedere non si è fatto il possibile per capire il movente e i mandanti dei una cosa così?
La manomissione alla leva della timoneria per portare l’assetto da “manuale” dov’era ad “automatico” ha senz’altro sortito un effetto: Ciro Di Lauro non potè essere sentito come testimone nel processo Moby Prince. Viste le domande che potevano essergli fatte soprattutto sull’esplosivo rinvenuto nel locale attiguo ad uno dove in quella nave accedeva quasi solo lui, trovo la coincidenza interessante. Quanto alla manomissione le sentenze ci dicono che ci fu ma fu talmente grossolana da non ingannare i consulenti del magistrato e il movente di quanto noto è facile definirlo: se cerco di portare una leva da manuale ad automatico e sono un appartenente alla compagnia armatrice di un traghetto inspiegabilmente finito contro una petroliera larga quanto tre campi da calcio, sto cercando di scaricare la responsabilità della collisione sul comandante del traghetto, che lì è morto. Sul mandante, ad oggi Pasquale D’Orsi, vicecapo ispettore tecnico di Navarma all’epoca dei fatti e accusato da Di Lauro di essere appunto “il mandante” del suo gesto, ha sempre negato di aver comandato la manomissione a Di Lauro e la magistratura lo ha assolto con formula piena.
Cosa è accaduto per te, quella notte?
Le opinioni personali fanno male alla storia. La storia è fatta di fatti, accertati, documentati. I fatti ci dicono che a due miglia e mezzo dal porto di Livorno, il traghetto Moby Prince è finito contro una petroliera statale deviando la propria rotta per una turbativa della navigazione ancora da accertare. Ne è scaturito un incendio e sono morte 140 persone in attesa di un soccorso che doveva e poteva salvarli. Lo hanno atteso per ore, alcuni fino alla mattina dopo. I motivi spero ce li racconti chi ha voluto questa strage. Abbiamo per ora solo documenti che ci indirizzano verso piste. Una di queste, descritta dal SISMI, l’allora servizio segreto militare italiano, parla di “rete di traffici illegali di armi scorie e rifiuti tossici”, in un diagramma che lega IRAQ e Italia. L’incidente sarebbe avvenuto in questo contesto. Di certo c’erano in quel momento in rada 7 navi miliari e militarizzate americane cariche di armi di ritorno dalla guerra del Golfo, proprio in IRAQ. E queste navi sono rimaste per molto tempo davanti al porto di Livorno, benché solo una di queste abbia avuto trasferimenti ufficiali di armi con la base di Camp Darby. Cosa sono venute a fare a Livorno? Dubito a vedere i bei tramonti.
L’attenzione nel cercare di coprire certe dinamiche degli avvenimenti era necessaria per non far emergere qualcosa di segreto che stava accadendo in quelle acque?
Di certo due navi militarizzate americane parlano in codice quella notte, usano due nomi latini di donna “Teresa” e “Agrippa”. E di certo via radio due navi legate al comando USA si preoccupano del fatto che dalla petroliera stiano dando ai soccorritori la posizione della nave incendiata. Le leggi del mare, i codici internazionali, imponevano di mettersi a disposizione del soccorso in atto, eppure queste imbarcazioni si preoccupano del fatto che i soccorritori arrivino prima sulla scena. Evidentemente per difendere interessi ben distanti dalla salvaguardia delle vite di chi era imbarcato sul Moby Prince.
Davvero si potevano salvare i passeggeri con interventi tempestivi?
Si potevano salvare alcune di quelle 140 vite con un corretto coordinamento del soccorso pubblico. Quante è difficile dirlo. Di certo non fu tentato alcun soccorso a bordo, benché potesse essere predisposto in un qualsiasi momento di quella notte. Ad esempio alle 3 del mattino, quando salì a poppa un marinaio dei rimorchiatori con una tuta antipioggia.
Ma più in generale ti chiedo, perché in Italia certi eventi diventano impossibili all’accertamento della verità? Cosa accade dove è che tutto diventa oscuro, quale sono i meccanismi che lo determinano non solo qui ma anche in altre storie maledette?
Io credo che si possa comunque sempre trovare la verità, anche in Italia. Chiaramente serve impegno, serve studio, perseveranza. Io e l’amico Gabriele Bardazza studiamo questo caso da 11 anni. E ancora oggi continuiamo a scovare pezzetti di verità nelle carte. Di certo quando menti raffinatissime si impegnano per depistare, annacquare, diluire la verità allora è più difficile. Ma per battere una mente raffinatissima senza scrupoli a volte basta una sana intelligenza collettiva, tanta perseveranza e un po’ di solidarietà.
A che punto è dopo 30 anni l’accertamento della verità? Cosa accadrà o meglio potrà ancora accadere qualcosa che restituisca una verità storica ?
Abbiamo una nuova verità sul caso, certificata dalla Commissione d’inchiesta 2015-2018 che ha ribaltato la narrazione presente in due sentenze e nell’ultima archiviazione del 2010. Sugli aspetti mancanti di questa verità stanno indagando la Procura di Livorno e la DDA di Firenze. Per la prima volta sul reato di “strage”. E in parallelo una nuova Commissione d’inchiesta parlamentare, questa volta alla Camera dei Deputati, dovrebbe partire entro fine aprile, primi di maggio. Mancano pochi tasselli del puzzle per ricostruire l’evento. Servono l’impegno dello Stato migliore e della società civile migliore, onesta, per chiudere questa storia. Mi auguro arrivino per quanto necessario. E non si fermino davanti ad alcuna scorciatoia.
Mauro Valentini