‘Non è normale che sia normale’. Perché no, non è normale – ancor di più in una società come la nostra, sempre in evoluzione (o che almeno cerca di esserlo)- che solo in Italia dal 2000 all’ottobre del 2020 si contano 3.344 donne uccise. Per mano di compagni, ex mariti, fidanzati, conviventi. E quasi sempre il femminicidio si consuma tra le mura di casa, quelle che dovrebbero proteggerle. Farle sentire al sicuro. Botte, pugnalate, aggressioni con l’acido, benzina. Tutto purché si cancelli quella donna, ritenuta ‘non essenziale, non importante, persona non degna di continuare a vivere’.
Ma l’amore è ben altro: è fiducia, stima, è libertà di essere se stesse. E’ indipendenza, non dipendenza. Non è asfissiante, non ti fa vivere con il fiato sul collo. E questo andrebbe detto a chi invece quelle mani al collo le ha strette davvero. Per uccidere la compagna. Per mettere fine a una vita e ai sogni di ragazze e donne, spesso mamme.
Leggi anche: “Questo non è amore”, il progetto per la giornata internazionale contro la violenza di genere
Quando il linguaggio ‘giustifica’ la violenza: tra stereotipi e pregiudizi, da combattere
Ma c’è una violenza ancora più sottile e difficile da combattere. Una violenza radicata nel linguaggio, negli stereotipi, nei giudizi ignoranti di chi è pronto a puntare il dito. ‘Era un brav’uomo, tutti lo conoscevamo. Lei voleva lasciarlo, lui non accettava la separazione’. ‘Si, è stata stuprata, però hai visto cosa indossava? Quella minigonna così corta…’. ‘Certo che hanno fatto bene a licenziarla, lei aveva mandato le sue foto osé al compagno’. E, purtroppo, frasi del genere se ne sono sentite. E se ne sentono spesso. Come se una gonna corta giustificasse l’abuso sessuale. Come se la separazione volesse dire: ‘lui l’amava troppo, non riusciva a stare senza di lei’. E perciò l’ha ammazzata. Come se una donna, solo perché maestra, non fosse libera nella sua intimità di fare ciò che voleva con quello che all’epoca dei fatti era il suo fidanzato. Una sfera privata e intima, una libertà individuale da ripudiare e condannare. E’ tutto un se, un ma, un perciò, un magari se. Ed ecco che la vittima diventa improvvisamente carnefice. Data in pasto a una società che si vanta di essere evoluta e all’avanguardia. Ma che resta chiusa e gretta nella sua pavida ignoranza.
Di violenza sulle donne e di uso spasmodico del linguaggio si dovrebbe parlare di più, non solo il 25 novembre. E le istituzioni dovrebbero darsi ancora più da fare, ricordarsi delle donne che denunciano. Di quelle che alzano la testa. Perché tra cavilli burocratici e ritardi della giustizia, si rischia di continuare a lasciare fuori i colpevoli. E l’innocente in gabbia. Donne sole a combattere contro la violenza, l’umiliazione e la cattiveria di una società fallimentare. E patriarcale.
Perché ogni volta che una donna muore, ogni volta che una donna viene giudicata per i suoi vestiti attillati, ogni volta che si giustifica un atto ignobile, il fallimento è di tutti. E bisognerebbe prenderne atto. Perché di normale in tutto questo non ci sarà mai nulla. Vinceremo quando non ci sarà più una giornata a ricordarci ‘della violenza’, vinceremo quando si abbatteranno tutti gli stereotipi e i pregiudizi. Vinceremo quando la narrazione sarà basata su su ‘siamo alla pari, sullo stesso livello’ e non su ‘la donna è di mia proprietà e ne faccio quello che meglio credo’. Allora sì che in quel caso potremmo dire di avercela fatta.