C’era una volta il calcio. Certo, c’è ancora, ma indubbiamente è cambiato, o quantomeno sono cambiati i meccanismi che vi ruotano attorno, soprattutto a livello economico e mediatico: adesso il pallone è soprattutto business e i calciatori guadagnano cifre inimmaginabili fino a vent’anni fa. Si diventa famosi prima sui social che sul campo e spesso i giocatori rivestono un ruolo che li fa apparire quasi irreali, più irraggiungibili dai divi americani negli anni d’oro di Hollywood: intervistarli è una fatica – bisogna fare richiesta all’ufficio stampa o all’addetto personale, vedere se l’accettano (e non succede praticamente mai), inoltrare le domande, aspettare le risposte a cui non si ha la possibilità di replicare – mentre una volta li fermavi dopo l’allenamento o la partita ed era fatta. Era tutto più diretto, più vero, come lo erano molti protagonisti di quel calcio. Uno di loro è Sandro Tovalieri, rimasto nel cuore dei tifosi giallorossi. Conosciuto con il soprannome di Cobra per il suo “piede velenoso”, nato e cresciuto ad Ardea, dove ancora abita, ha vissuto gli anni del calcio senza i social network.
Leviamoci prima una curiosità: sei sempre stato tifoso della Roma o hai tifato anche per qualche altra squadra?
“Sono nato e morirò romanista. Mio padre, che tifava Juve, quando avevo 4 anni ha cercato di farmi diventare juventino facendomi indossare una maglia bianconera e mi portò a Ostia, dove la squadra si allenava in ritiro in vista della partita dell’indomani all’Olimpico. Ero piccolo, non capivo niente, ma a parte le foto che testimoniano questo episodio, io sono sempre stato romanista. Quando poi, a 11 anni, sono entrato a giocare nella mia squadra del cuore, ho coronato un sogno. Ovviamente ho tanti amici di altre squadre, soprattutto laziali, con cui ci scambiamo gli sfottò, ma non sono mai stato laziale. Anzi, durante la mia carriera una volta mi contattarono i dirigenti della Lazio per propormi un contratto, ma rifiutai per non tradire la mia fede calcistica”.
Come è iniziata la tua carriera?
“Come tutti i bambini dando calci a un pallone in mezzo a una strada e sognando di diventare calciatore. Poi andai per un anno al Pomezia Calcio e, durante torneo contro la Roma, vincemmo 3-1. Io feci 3 gol: i dirigenti contattarono mio padre e mi presero senza neanche fare il provino. Da lì ho fatto tutti i settori giovanili, ho vinto uno scudetto con gli Allievi e un Torneo di Viareggio giocato con ragazzi più grandi di me di due anni. Poi la Roma decise di mandarmi per un anno in prestito a Pescara e ad Arezzo, quando avevo 17 anni, per farmi fare le ossa: ho segnato 10 gol a campionato. Poi sono tornato e da lì il percorso è stato in crescendo, mi sono tolto tante belle soddisfazioni”.
Hai qualche rimpianto?
“Qualche dispiacere sì, come lo scudetto perso per un soffio, nella famosa Roma-Lecce dell’86. Poi perché potevo rimanere un po’ di più nella mia squadra del cuore, ma a 20 anni, quando hai tanti campioni davanti, il pensiero di dover fare 6 o 7 anni di panchina ti spaventa, anche perché gli anni di carriera per un calciatore sono pochi, quindi pensavo di andare da qualche altra parte e poi tornare. Certo, forse sotto alcuni aspetti, magari per quanto riguarda la nazionale, poteva andare un po’ meglio, ma non è stato così: un po’ per colpa mia, perché avrei potuto fare ancora di più, un po’ perché all’epoca c’erano tantissimi giocatori italiani forti. Quando giocavo nel Bari ho segnato 17 gol, ma davanti a me avevo campionissimi. Oggi con 17 gol il posto in nazionale sarebbe assicurato. Ma va anche bene così: l’affetto che ancora mi lega ai tifosi ne è la prova”.
Torniamo agli inizi. Com’era la vita di un ragazzino di Ardea che doveva raggiungere gli allenamenti a Roma?
“Dura. Io partivo la mattina presto da casa per andare a scuola alle 7:15 a Pomezia e mi portavo sia lo zaino con i libri che la borsa per l’allenamento. Uscito da scuola, infatti, andavo direttamente al campo. Mangiavo un pezzo di pizza per strada e prendevo il pullman per l’Eur. Poi da lì dovevo raggiungere il Tre Fontane o il San Tarcisio, a viale Marconi. Era un tragitto notevole per un ragazzino di 12/13 anni, ma la passione era tanta. Una volta ho scoperto che i miei genitori, di nascosto, mi seguivano con la loro macchina per vedere se tutto era a posto durante il mio percorso a piedi. Alle 18:30 riprendevo il pullman e alle 19:15 ero di nuovo ad Ardea. Cenavo e crollavo nel letto a dormire. Il sacrificio però non mi pesava. Ho cominciato a pensare di fare il calciatore per mestiere solo più avanti, quando sono entrato negli Allievi. Mi ha aiutato il mio carattere forte: a cavallo tra gli anni ‘80 e ’90 ci sono stati tanti campioni e non era facile emergere. Sono arrivati gli stranieri, Maradona solo per citarne uno. E poi avevamo tanti calciatori fortissimi italiani ed era bellissimo giocare con loro”.
Chi ti ha lasciato più il segno?
“Ho legato con moltissimi colleghi, con qualcuno di più, altri di meno. Magari leghi con chi ti abita vicino e anche le famiglie fanno amicizia. Tra questi Bruno Conti, si può dire che siamo quasi paesani, visto che lui è di Nettuno. Ma non posso dimenticare Carlo Ancelotti, Sebino Nela, Roberto Pruzzo, Ciccio Graziani, Dodo Chierico, Toninho Cerezo e tanti altri: li dovrei menzionare tutti, anche perché io all’epoca avevo 20 anni e non era facile entrare tra tutti questi campioni già affermati. C’è un’ansia terribile, ma capisci che devi tirare fuori il carattere”.
Qual è stato l’allenatore che ti ha aiutato più di tutti a farlo?
“Un po’ tutti, ma devo dire sicuramente grazie ad Ericksson che mi ha fatto esordire in serie A: il mio primo gol in serie A l’ho fatto a Napoli, al San Paolo, e sul tabellone c’erano il mio nome e quello di Maradona. Penso che dopo aver detto questo potrei anche smettere di parlare. È stata un’emozione indescrivibile, che rivivo ogni volta che ci penso. Un altro che devo ringraziare tantissimo, perché mi ha aiutato a tirare fuori il carattere è Carletto Mazzone. L’unico dispiacere è quello di averlo avuto come allenatore solo a fine carriera. Lui era un sanguigno, un romanaccio tosto, grazie a lui ho segnato 14 gol in 5 mesi: chissà, se lo avessi avuto prima, magari avrei potuto raggiungere livelli più alti, anche se il carattere non mi è mai mancato, perché ogni allenatore ti tira fuori qualcosa di diverso e ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa di diverso, così come i calciatori a cui mi sono ispirato”.
Quali sono gli episodi che ricordi di più?
“Lo vedevo come un padre ed era l’unico con cui non mi arrabbiavo se mi lasciava in panchina. Per dirti che non avresti giocato lui aveva l’abitudine di prenderti sottobraccio. Quando una mattina, prima della partita contro il Parma, lo fece con me, lo guardai in cagnesco e lui mi rispose male, dicendomi gli dispiaceva, ma era una scelta che doveva fare. Dopo 20 minuti perdevamo 3 a 0. Alla fine del 1° tempo mi disse di riscaldarmi, ma io mi arrabbiai: anche lui si alterò, ma alla fine ovviamente iniziai il riscaldamento, entrai in campo, feci due gol e sfiorai la terza rete. Perdemmo 3-2 e Mazzone andò sotto la curva dei nostri tifosi e, a gran voce, disse: “Non ci capisco un c…o, come allenatore, se l’ho lasciato in panchina!”, poi tornato negli spogliatoi, lo ha ripetuto anche a me e ci siamo messi a ridere: da quel giorno non mi ha più messo in panchina, neanche quando gli chiedevo io la sostituzione. Se poi devo parlare del calcio in generale, un ricordo bello è quello di quando, al Bari, dopo un mio gol per la prima volta mettemmo in scena in Italia il ‘trenino’. Era una tradizione colombiana, avevamo dovuto imparare i movimenti, tutti coordinati, l’effetto era bellissimo, al punto che Raimondo Vianello invitò me e Protti in tv”.
Qual è la differenza tra i calciatori di adesso e quelli di 20 o 30 anni fa?
“Prima ti dovevi ‘sudare la pagnotta’. Adesso in tv si va con una facilità incredibile e si parla di contratti stratosferici: fai due gol e vali 50 milioni di euro, diventi una star e vieni valutato una valanga di soldi. Donnarumma a 18 anni già prendeva 5 milioni di euro. Sono contento per loro, ma la ritengo una cosa davvero esagerata, anche perché poi ci sono le società con i conti in rosso, senza contare che è uno smacco alla povertà delle persone che fanno fatica a portare uno stipendio a casa per mettere un pasto a tavola. Credo che se un buon giocatore guadagnasse al massimo 2 o 3 milioni di euro, che è comunque una cifra considerevole, avrebbe preso il giusto. Bernardeschi che va via dalla Fiorentina, fa mezzo campionato alla Juve e guadagna 6 milioni mi sembra un’esagerazione. E non sto parlando di personaggi come Messi e Ronaldo, perché lì tratta di cifre stellari. I nostri ingaggi, nonostante l’alto numero di gol, erano spicci. Se oggi fai 17 gol come li facevo io ti danno 12 milioni di euro: è una follia, anche perché adesso vedo che molti hanno perso quella grinta che serve in campo, ritirano la gamba per paura di farsi male”.
Non c’è più il “calcio vero”?
“Questo non sta a me dirlo, però sono molti i tifosi di una certa età che rimpiangono il calcio degli anni ’80 e ’90, anche perché all’epoca si potevano andare a vedere gli allenamenti, ci si poteva fare la foto con un giocatore e chiedergli l’autografo perché si fermava a parlare con i tifosi, c’era più interazione e partecipazione. Adesso invece i giocatori escono da un altro cancello, l’allenamento è off limits. Tutto questo lo vedo come una mancanza di rispetto nei confronti dei tifosi, perché se noi siamo diventati quello che siamo è anche grazie a loro che portano soldi alla società per cui tifano. Oggi il calciatore entra in campo tutto perfetto e ingelatinato ed esce perfetto e ingelatinato. Io mi ricordo che non mi facevo la barba per intimorire l’avversario sportivamente parlando. Ma prima c’erano anche i presidenti tifosi, mentre adesso ci sono i presidenti manager, che acquistano i giocatori con le clausole rescissorie. Non si fanno gli investimenti per vincere, ma per guadagnare”.
E così non è più calcio, ma business. C’era una volta il calcio…