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PIR, pregi e difetti dello strumento più “in” del mercato finanziario

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Se si dovessero assegnare gli Oscar del mercato finanziario, i protagonisti assoluti sarebbero senza dubbio i Piani Individuali di Risparmio: i PIR hanno caratterizzato il 2017 con un boom senza precedenti.

 

Un exploit arrivato ad un solo anno dalla loro “nascita”, probabilmente in considerazione di una proposizione di valore totalmente differente dagli altri strumenti finanziari a disposizione dei risparmiatori. I Pir rappresentano una soluzione commerciale innovativa, al passo con i tempi ma al contempo rispettosa delle esigenze dei clienti. Un ulteriore boost è arrivato dalle agevolazioni introdotte dallo Stato Italiano, preoccupato per la crisi del sistema bancario e desideroso di riconquistare la fiducia dei risparmiatori.

Se i Pir hanno quindi sinora attirato le attenzioni degli investitori, è soprattutto merito di come questo prodotto è stato concepito, con una serie di pregi non indifferenti evidenziati in un articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore”. L’altro lato della medaglia, però, evidenzia che il fenomeno Pir potrebbe presto trasformarsi in una bolla: il futuro potrebbe infatti essere rappresentato dalla consulenza finanziaria indipendente, che attraverso la tecnologia garantisce la trasparenza da sempre ricercata dall’investitore, e garantisce al contempo quella diversificazione che mette al riparo dalle oscillazioni del mercato stesso.

Tra i benefici più importanti vi è senza dubbio il già citato beneficio fiscale. Chi investe nei PIR non pagherà tassa di successione e capital gain qualora decida di mantenere attiva la sottoscrizione per un periodo minimo di 60 mesi. Altro “paletto” imposto per la detassazione è l’investimento nelle piccole e medie imprese nazionali, a tutto vantaggio della micro-economia nazionale che è spesso sovrastata dai giganti di settore. In questo modo, l’imprenditoria può far rinascere il “made in Italy”, e l’investitore potrà usufruire di agevolazioni senza precedenti. Ovviamente, l’opzione detassazione non è applicata a chi disinveste prima dei 5 anni, ma senza dubbio questo beneficio fiscale sposta gli equilibri rispetto ai classici fondi comuni.

 

Nei giorni della definizione dell’Inno di Mameli come “Canto degli Italiani”, anche la finanza va nel verso del risveglio del patriottismo: chi investe in Pir sostiene in maniera forte il sistema economico nazionale, ma solo a livello di mercato finanziario. Secondo le stime della Banca d’Italia, la ricchezza italiana – immobili esclusi – ammonta ad oltre 4200 miliardi di euro, ma solo una piccola parte di questo valore è investito direttamente. Attraverso i PIR, quindi, le imprese riescono a non essere così dipendenti dal sistema bancario, trovando i capitali anche dai piccoli contributi degli investitori privati.

A fronte di questi indiscutibili vantaggi, però affiorano anche alcuni punti negativi. I PIR sottopongono gli investitori ad una tassazione maggiore, spesso riportata tra le “note” di sottoscrizione e sorvolate dall’investitore al momento della firma. Per questo motivo è sempre importante avvicinarsi al mercato finanziario solo dopo aver studiato nel dettaglio il settore in cui si decide di investire e i meccanismi che regolano lo stesso. Altro punto a discapito dei PIR è la mancanza di diversificazione. Per ottenere la defiscalizzazione, infatti, il risparmiatore deve investire un massimo di 30 mila euro all’anno per 5 anni, concentrandosi principalmente su azioni provenienti da imprese italiane. Ed è qui che si crea un “maxi-ingorgo”, che catalizza i rischi e potrebbe sottoporli ai risparmiatori.

Nell’incertezza tra pro e contro, quindi, gli esperti di settore suggeriscono agli investitori meno esperti di non destinare l’intero patrimonio a disposizione ai PIR, per non dover poi fronteggiare brutte sorprese legate alle oscillazioni di mercato.

 

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