Quarantatré anni da quando l’aborto in Italia non è più considerato reato. Lunghe battaglie, manifestazioni e proteste prima di poter cantare vittoria con l’entrata in vigore della legge, meglio conosciuta come 194, del 1978 che ha depenalizzato l’aborto. Eppure, a distanza di anni, c’è chi considera l’interruzione di gravidanza ancora come atto ignobile, un reato tutto da punire e condannare. Come se il tempo fosse sì trascorso, ma senza fare passi in avanti. Tutt’altro. Nel 2021 siamo ancora qui a parlare di quella che è (e dovrebbe essere) a tutti gli effetti una libera scelta della donna.
Avevano tanto indignato e fatto scalpore i manifesti apparsi a dicembre in più città d’Italia, da Roma a Milano: “Prenderesti mai del veleno? Stop alla pillola abortiva”. Cartelloni immensi realizzati da Pro Vita & Famiglia, presentati come se fossero “la legge”, messi lì con l’intenzione di denunciare e bloccare in qualche modo l’aborto farmacologico. E oggi, nella Capitale sono ritornati a “sfilare” i furgoncini bianchi con tanto di scritte e di foto: “Il corpo di mio figlio non è il mio corpo e sopprimerlo non è la mia scelta. Stop all’aborto”.
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E’ questo il modo di stare dalla parte delle donne? Considerarle “incivili e infami” per quella che è una libera scelta? Mandarle al patibolo o etichettarle come se fossero “appestate”? Ridurre un essere umano al solo e unico concetto di “corpo”? Ognuno di noi ha il diritto di scegliere e le donne che abortiscono non dovrebbero sentirsi come se fossero “obbligate” a giustificarsi. Con chi? Stare dalla parte delle donne, di cui tanto si parla, vuol dire garantire loro un’assistenza medica, non lasciarle sole. In quella che a volte è una scelta sofferta e straziante. Senza dimenticare che esistono (o almeno così dovrebbe essere) due principi fondamentali: libertà e diritto all’autodeterminazione.