Fucci non è Totti. Il confronto, che a molti potrebbe sembrare eretico, ha invece un suo fondamento.
Possiamo paragonare la regola dei due mandati – regola che può essere giudicata ingiusta, obsoleta, da rivedere, non condivisibile, ma sempre regola è (accettata e addirittura portata ad esempio di virtù nei confronti dei “mestieranti della politica”, dei partiti dove gira che ti rigira i personaggi sono sempre gli stessi, dove ci si incolla alla poltrona da giovani e la si lascia, forse, un giorno prima di morire) – al limite di età imposto dallo sport, in questo caso il calcio. A una certa età, anche se ti senti in forma, anche se sei un campione, te ne devi andare e lasciare spazio ai giovani, ai nuovi arrivati. Oppure puoi non accettare questa regola e cercare una squadra dove, nonostante l’età, basta il tuo nome per attirare pubblico pagante.
Pensate che Totti non avrebbe avuto un suo seguito, se invece di lasciare il calcio giocato, si fosse semplicemente tolto la maglia della Roma e avesse indossato quella di un’altra squadra qualsiasi, anche se meno importante?
E pensate che adesso Fabio Fucci, sindaco di Pomezia, lasciando la poltrona di sindaco il prossimo maggio per fine mandato e lasciando ancor prima la maglia del Movimento 5 Stelle, non possa avere il suo seguito indossando una maglia meno “blasonata” di quella che gli ha fornito Beppe Grillo, per metterne una dai colori ancora da definire?
Certo che ne avrà. Sarà quello di tutti coloro che pensano che il “modello Pomezia” sia frutto esclusivo della sua opera e non del lavoro congiunto di sindaco, assessori, consiglieri. Di tutti coloro che pensano che le cose positive siano merito esclusivo di uno, e non del gruppo, delle idee comuni, del progetto iniziale di cui il sindaco era solo l’espressione più in vista, ma non l’artefice esclusivo.
Totti avrebbe avuto il seguito di tutti coloro che hanno amato, ancor più della squadra in cui giocava, le sue prodezze, che sarebbero state magari accompagnate da molti più trofei se il “Pupone” avesse deciso, tempo addietro, di cedere alle lusinghe di squadre ben più corazzate, forti e ricche di quella capitolina.
La differenza tra i due personaggi si vede qui: Totti, lacrime sul viso e cuore spezzato, ha capito che, tra la sua voglia di giocare ancora, di essere protagonista, di ricevere applausi e stand ovation, e la sua fedeltà verso la squadra che lo aveva accolto quando ancora non era nessuno e lo aveva fatto diventare un grande, era quest’ultima a prevalere. Una scelta dettata dall’amore per gli altri: i tifosi, la squadra, i compagni. Perché quello che voleva non era il risultato personale, ma la crescita della sua Roma. Che non poteva esserci se c’era qualcuno che non rispettava le regole (dell’età).
Fucci, senza lacrime, ha fatto invece il ragionamento inverso: per Pomezia l’unico a poter far del bene è lui, non i suoi compagni di squadra, evidentemente – Adriano Zuccalà in testa – tutti incapaci di eguagliarlo nei risultati. Viene quindi da pensare come mai siano stati scelti, sia i consiglieri entrati nella lista che si è presentata alle elezioni, sia gli assessori, divenuti tali con la nomina proprio del sindaco.
Non sta a noi giudicare se la scelta di Fucci di “tradire” quel movimento che lo ha fatto diventare un personaggio pubblico, oltre che un politico, sia giusta o sbagliata. Non sta a noi – lo hanno già fatto in tanti – ricordargli che anche lui, insieme a tutti gli altri grillini, sosteneva la necessità di mandare a casa chi aveva fatto due mandati per evitare che la politica diventasse un mestiere. Non sta a noi ricordargli che per tutta la campagna elettorale del 2013 non ha mai parlato in prima persona, ma sempre come “noi”, inteso come intero gruppo 5 Stelle. L’uno vale uno tanto osannato allora, adesso sembra essere un ricordo lontano.
Ma, appunto, non sta a noi sollecitare questi ricordi.
Tornando alla parabola del calcio, torniamo invece a un altro confronto con Totti, ma stavolta l’altro protagonista è Alessandro Del Piero. Lui, di fronte alla richiesta della Juventus di farsi da parte, di togliere la maglia e andare a fare il dirigente, disse no ed emigrò in Australia, per continuare a giocare e ricevere applausi. Per chi non lo sapesse, l’avventura di Del Piero in Australia, nel Sydney FC, si è conclusa nel 2014, dopo due anni, con un semplice messaggio sul sito del calciatore: “Ciao Australia”. Niente standing ovation, niente Italia incollata agli schermi, niente stadio pieno con 60 mila persone in lacrime. Poi, un anno in India, al Delhi Dynamos (ma quanti lo sapevano?), finito praticamente nell’oblio.
Senza togliere nulla all’uomo e al grande campione che è Del Piero, forse la sua scelta non è stata la più azzeccata.
Totti ora è dirigente della Roma e continua ad esserne una bandiera vivente. Del Piero è tornato in Italia per continuare a parlare con un uccellino.
Forse Fucci avrebbe fatto bene a pensare a questi due campioni dello sport, prima di decidere di lasciare la maglia e partire per chissà quale Australia.
Ma se passare dal’ “io” al “noi” è dura, evidentemente fare il percorso contrario, tornare dal “noi” al “io”, è un richiamo troppo forte per pensare a quali potrebbero essere le conseguenze.
Maria Corrao