Il Prof. Paolo De Nardis (Ordinario di Sociologia, Sapienza – Università di Roma) invia alla redazione questo articolo, che viene pubblicato integralmente
Dopo tanti anni di analisi dei fenomeni sociali e politici, la politica – soprattutto quella locale – continua a stupirci e a sfuggire a ogni plausibile interpretazione. Prendiamo il caso di Pomezia. Subito dopo le recenti elezioni comunali, due erano i casi, nella Provincia di Roma, che venivano analizzati come “fiori all’occhiello” della riscossa della sinistra sul berlusconismo calante: Genzano e, appunto, Pomezia. Nel primo caso i commentatori magnificavano il fatto di un ballottaggio, al secondo turno, composto da due candidati di sinistra. Nel secondo caso, invece, il plauso generale andava a una amministrazione comunale di centro-sinistra capace di confermarsi, nella persona del sindaco Enrico De Fusco, in un territorio storicamente avverso. Con il famoso senno del poi (soprattutto, con l’occhio attento di chi è abituato ad analizzare contesti politici e cerca di andare oltre l’apparenza) si può dire che ambedue le valutazioni erano viziate da imprecisioni e strabismi. Nel caso di Genzano, ad esempio, il ballottaggio era leggibile soprattutto come una incapacità, da parte del Pd (partito storicamente egemone in città), di “controllare” il voto dei propri elettori, facendolo parzialmente confluire su un altro candidato. Nel caso di Pomezia, i distinguo rispetto alla conferma di De Fusco volgono non tanto nel senso di “ridimensionare” la portata storica della vittoria di De Fusco (ricordando come nel passato il centro-sinistra abbia vinto altre volte a Pomezia, eventualità piuttosto prevedibile, del resto, in un contesto industriale con una forte componente di voto operaio), quanto nel commentare cosa sia accaduto nei primissimi mesi dopo la conferma del sindaco De Fusco. Sconvolgendo quello che sarebbe stato un logico calendario di azione politica (con al primo posto l’emergenza-immondizia, tanto per dirne una), il neo/vecchio sindaco si affrettava, come immediata priorità, a stravolgere, per interposta persona, il Consorzio per l’Università di Pomezia, conosciuto dalla cittadinanza anche come “Campus Selva dei Pini”. Personalmente, ho iniziato a frequentare il Campus come cotitolare dell’insegnamento di Filosofia del Diritto (e di Sociologia della Pubblica Amministrazione) nella facoltà di Giurisprudenza, presso una delle università strutturate nel Campus (nello specifico, la Libera Università del Mediterraneo). Più che dalla remunerazione (di portata pressoché simbolica), ero stato spinto dalla possibilità di partecipare a un’impresa innovativa: un’università che riempisse il vuoto di istituti deputati alla formazione di eccellenza in un’area che partiva dall’Eur e arrivava alla Provincia di Latina. Il tutto, per di più, in un contesto oggettivamente affascinante e unico come la Selva dei Pini. Questo esperimento è durato un anno, troppo poco per essere valutato in maniera definitiva, ma sufficiente a emettere qualche giudizio: il Campus è diventato un patrimonio della città di Pomezia, che per lungo tempo ne aveva addirittura ignorato l’esistenza, e ha assunto una sua centralità. Certamente non solo grazie all’università, ma anche grazie alla produzione scientifica e culturale che ha caratterizzato la stagione 2010-2011. Nell’anno accademico ormai alle spalle, infatti, il Campus non ha significato solamente università, iscrizioni (poche o tante che siano state), esami, verbalizzazioni: ha significato un intenso calendario di iniziative culturali, spesso di livello internazionale. Il Campus si è aperto alla cittadinanza di Pomezia (che adesso lo frequenta anche per gli aspetti più ludici, dalle strutture sportive alla sua magnifica area verde), ma è anche andato oltre, ospitando docenti e studenti provenienti dal Latino America, dall’Australia, dall’Asia, oltre che da molti Paesi europei. Cosa significa questo? Significa scambi culturali, dialogo tra culture, confronto su molteplici tematiche. Significa, più banalmente, che adesso Pomezia è un nome conosciuto in Messico come in Serbia, per quanto questa evidenza possa interessare a un ceto politico locale attento esclusivamente al proprio orticello. Ancora più banalmente (qui il ceto politico comincia a essere interessato) significa che le iniziative culturali generano un indotto, di cui beneficia l’intera cittadinanza, e lasciano qualcosa di consolidato, a differenza del semplice convegno “mordi e fuggi”, organizzato per compiacere il politico locale.
Lasciando da parte le polemiche locali, che non ci interessano in questa sede, vorrei soffermarmi, infine, su due aspetti, che confermano come oggi sia particolarmente difficile analizzare la politica locale, quando “saltano” quegli schemi e quelle categorie che ci hanno a lungo accompagnato. Primo esempio: quali sono i motivi per cui la giunta comunale, appena eletta dopo un ottimo risultato elettorale, attribuisce la presidenza del nuovo Cda del Campus a un tecnico e la vicepresidenza a un politico vicino centro-destra (Massimo Ciccolini, reduce da un risibile risultato elettorale, con 612 voti su oltre 33mila votanti)? Sembra evidente che sarà quest’ultimo, nonostante l’organigramma affermi sulla carta il contrario, a gestire la politica del Campus (anche perché sul presidente “pende” un’accusa di incompatibilità). Ma allora perché “regalare” la direzione di questa struttura a una parte politica uscita sconfitta dalle elezioni? Sul Corriere della Città di Pomezia, alla fine di luglio, in una lunga intervista il consigliere Renzo Antonini (Pd) sparava a zero sulla precedente gestione del Campus: non entro nel merito – perché non di mia competenza – della gestione delle strutture sportive, sicuramente migliorabile, ma vorrei chiedere al collega Antonini (oltre a essere un docente universitario sono stato consigliere comunale a Roma, con un numero di preferenze triplo di quello conseguito dal buon Antonini a Pomezia) come mai il centro-sinistra di Pomezia abbia abdicato alla promozione della cultura come veicolo di emancipazione. Come mai abbia consegnato di fatto la gestione di un ente strategico come il Consorzio per l’Università all’opposizione. Ha ottenuto in cambio qualcosa oppure ha concretizzato l’insegnamento veltroniano per cui “vinco le elezioni, ma costruisco le premesse affinché l’opposizione si prenda la rivincita”?
La seconda, e ultima, questione che vorrei far balzare agli occhi riguarda il mondo del lavoro: l’atto di accusa contro la precedente gestione del Campus si è concretizzata nella messa in discussione di diversi contratti lavorativi. Non entro nel merito neanche di questa vicenda, per la quale si pronunceranno i tribunali, ma sottolineo come, a fronte della presa di posizione degli stessi lavoratori (che hanno accusato un clima intimidatorio nei loro confronti), i sindacati Cisl e Uil (insieme alla Flaica Cub) si siano apoditticamente schierati dalla parte del datore di lavoro (si veda articolo su Latina Oggi dell’11 agosto 2011). Sarà ingenuo chi scrive, ma un sindacato che, di fronte alla minaccia di licenziamenti, prende le posizioni di chi licenzia è una triste e inquietante novità…
Paolo De Nardis