Gira per le scuole e regala sorrisi ai bambini. Questa solo l’ultima tappa artistica di Gianluca Lalli, forse uno degli ultimi rappresentanti della generazione dei cantautori. Senza luogo e senza tempo, proprio in accordo con ciò che lui è. In epoca di trap, musiche e racconti di dubbio gusto, lui, valigia alla mano, vagabonda per l’Italia con il suo ultimo progetto, frutto anche del suo album ‘Le favole al telefono’ dall’omonima opera di Gianni Rodari. Cosa che gli permette di regalare gioia soprattutto ai più piccoli con il suo spettacolo ‘Il canta favole’. E c’è molto, tantissimo di suo in tutto questo. Perché Lalli spiega, sommessamente, come si scrivono le canzoni a partire dai racconti. E lo ha fatto tante volte lungo il suo percorso. Vincitore nel 2005 del premio Rino Gaetano, candidato alla targa Tenco l’anno scorso, Gianluca ha collaborato anche con Remo Remotti e Claudio Lolli. Non basterebbe mai un solo articolo per riassumere l’ecletismo di un uomo totalmente votato alla forma canzone. Ma non solo; recentemente ha debuttato come regista, presentando il suo documentario su Rino Gaetano. Gianluca, che è prima di tutto un amico di chi scrive, arreca in sé la creatività di John Fante, la crudezza dei Poeti Maledetti, ed oggi anche la realistica spensieratezza di Rodari. Ed è arrivato il momento di farci quattro chiacchiere.
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“Siamo in una società falsamente libera. In realtà viviamo in una giungla d’asfalto”
Gianluca, quando hai cominciato a pensare di voler raccontare storie mediante la forma canzone? Chi e cosa ti ha ispirato?
Sin dall’inizio, dal primo disco, ‘Il tempo degli assassini’ del 2011. Sono molto attratto dalle canzoni popolari perché raccontano quello che accadeva veramente, sono testimonianze. Peraltro con finalità sociali. Io ho affiancato a queste forme popolari la forma letteraria pura. Cercando di fare ricerca in letteratura ho lavorato sempre sul binomio canzone/letteratura. Come influenze letterarie sicuramente i poeti simbolisti, come Baudelaire, Verlaine e Rimbaud. Ma poi Carlo Levi, Herman Hesse, Trilussa e Ignazio Silone. Tutti nomi che ho inglobato nei miei lavori.
Hai avuto modo di esprimerti con delle band in passato, ora invece preferisci una sonorità più intima, al massimo due chitarre. Da dove viene questa scelta artistica?
Trovo che la band sia un po’ troppo statica e rumorosa. Sarà che sto invecchiando? Preferisco oggi sonorità più intime, due chitarre acustiche. Come adesso, che sto lavorando con Stefano Sanguigni. Punto molto sull’attenzione per le parole. La band la vedo più come una cosa da sagra, con le dovute eccezioni.
Tra tutti i tuoi progetti, anche se ora si parla del tuo lavoro su Rodari, a quale sei più affezionato? E quale invece è stato quello più ostico, con il quale ti sei scontrato?
I miei progetti sono tutti orientati sul sociale. Il lavoro su Rino Gaetano con il film parla di un Rino uomo che protestava attraverso le canzoni. Gianni Rodari è la stessa faccia della medaglia. Molto tosto è stato Lisistrata & le altre che riprende la commedia di Aristofane ed è decisamente un dramma. Parla della violenza di genere e oggi i numeri sono impressionanti. Siamo in una società che fa finta ipocritamente di essere libera e democratica. In realtà è una giungla d’asfalto. Non c’è stato in realtà un vero e proprio progetto ostico.
“Vorrei che tutti leggessero per non essere più schiavi dell’altro”
Rodari è stato forse una illuminazione per te. I suoi testi sembrano fatti apposta per essere musicati. Da cosa è nata questa attrazione?
Io sono nato nell’ultimo paese delle Marche fondato dai briganti, dove fanno ancora il carbone. Dove si vive di legna, di carbonaie, che somiglia molto ai fontamaresi o ai cafoni raccontati da Carlo Levi. Quindi Gianni Rodari fa parte di questo mondo magico, fatto di solitudine. L’attrazione per lui è nata per la sua poetica e per la grande immediatezza, ma nel contempo anche profondità. Credo che ciò sia proprio una sua peculiarità. Le sue poesie, le sue filastrocche hanno ritmo. Sono già delle canzoni. Lui peraltro era anche un musicista, aveva studiato violino. “La letteratura deve essere di tutti“, diceva. La cultura non deve essere un discrimine. Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati, ma per non essere più schiavi dell’altro.
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“Perché i bambini? Perché i grandi sono troppo piccoli per poter capire”
È da un po’ ormai che sei impegnato con le tue attività presso le scuole. Come mai hai deciso di concentrarti sulla mediazione culturale, rispetto alle tue competenze sulla canzone, con i bambini?
Sono impegnato da anni nelle scuole. Mi concentro sui piccoli perché, come diceva una canzone dei Ratti della Sabina, “I grandi sono troppo piccoli per poter capire“. Secondo me si è persone autentiche fino a sette, otto anni. Dopodiché i mostri, gli eroi che uno ha nella testa diventano o quelli della Marvel o quelli del calcio. Quindi tutti i mostri che abbiamo diventano conformi. Diventano tutti uguali e qui nasce ‘La fabbrica di uomini’, il mio secondo disco è ispirato a questo. I bambini invece sono qualcosa sempre di nuovo, che ti stupisce e ti fa crescere.
Stai cominciando a porre in essere un nuovo progetto, o pensi di dover esaurire qualcosa ancora rispetto a quelli pregressi?
Sicuramente porterò avanti i miei vecchi progetti, che non sono esauriti. Sto però lavorando ad idee nuove. Riguarda sempre Gianni Rodari e riguarda l’ecologia. Ma ne parleremo meglio la prossima volta. Ad ogni modo, lo sai, i problemi si ripetono. Dai greci in poi poco è cambiato.
Hai debuttato da poco anche come regista. Insomma, come ti senti?
Ci sono state delle difficoltà, perché è stato censurato ed è stato fermo un anno. Il documentario sta piano piano entrando nelle case. Piano, come la mia musica. Ma anche perché non posso venderlo alle televisioni per contratto. Passa per le piazze e per i teatri, ma è ok, l’importante è che il pensiero arrivi.