Avevano ragione dipendenti ed acquirenti. I primi ad accusare le banche di aver approfittato delle difficoltà finanziarie dell’imprenditore molisano, pometino d’adozione, Raffaele Di Mario, sono stati proprio loro, le “persone comuni”, che nel crack che ha coinvolto le varie società riconducibili a Di Mario hanno perso il lavoro o la casa, e addirittura in alcuni casi entrambi. La Magistratura di Roma, a seguito dell’inchiesta che lo scorso anno ha portato Di Mario agli arresti, ha disposto il sequestro, effettuato dal gruppo di polizia valutario della Guardia di Finanza di Roma, di ben 31,6 milioni di euro: 12,9 alla Unicredit, 8,2 alla Tercas, 7,9 ad Italease e 2,7 alla Factorit SpA, una società di factoring. La motivazione del sequestro va ricercata nell’aver soddisfatto i crediti delle banche a danno del Gruppo Di Mario, e conseguentemente dei suoi dipendenti, portando le società al fallimento. E le banche sono infatti indiziate per concorso in bancarotta preferenziale e patrimoniale in quanto, anche se sapevano dei grossi problemi del Gruppo in quanto principali creditori, hanno “predeterminato l’impiego della ingente somma per soddisfare le loro esposizioni creditorie”. Per capire il motivo dell’accusa bisogna tornare al 2008, anno in cui alcune delle società facenti capo a Di Mario aprirono un fondo comune di investimento, il Diaphora 1, gestito dalla Raetia Sgr. In questo modo si riuscì ad avere nuova fiducia da parte delle banche e ad ottenere la liquidità finanziaria necessaria, che formalmente era indirizzata alla Raetia e non alle singole società del Gruppo Di.Ma.; l’operazione, così come era stata improntata, prevedeva il pagamento di 42 milioni di euro di IVA, che la Raetia doveva versare alle società di Di Mario, e queste allo Stato. Ma così non è stato: invece di versare l’IVA all’erario, le società del Gruppo hanno pagato le banche creditrici per un valore di oltre 31 milioni, come previsto da accordi precedenti tra le parti interessate. Tutti felici e contenti se la Guardia di Finanza non si fosse accorta del mancato versamento: finora le fiamme gialle sono riuscite a ricostruire i movimenti dei 31,7 milioni di fondi sequestrati, ma sono ancora al lavoro per capire che fine abbiano fatto i 10,3 mancanti.
“I consulenti del Gruppo Dimafin imposti dalle banche – avevano dichiarato alcuni ex dipendenti lo scorso aprile – nell’anno 2009/2010 hanno provveduto ad assicurarsi lauti compensi professionali, nonostante la crisi aziendale. L’accordo di ristrutturazione ex art. 67 L.F. firmato dalle banche finanziatrici e dai fornitori e lavoratori prevedeva che questi ultimi fornissero le proprie prestazioni lavorative per diversi mesi senza essere pagati, in vista di un auspicato risanamento del Gruppo Dimafin. La realtà dei fatti si è rilevata, purtroppo, tutt’altra. Infatti, se da una parte i consulenti “delle banche” hanno pensato bene di farsi pagare le proprie parcelle, dall’altra le banche si sono attivate al fine di “trasformare” i propri crediti da chirografari a privilegiati, trascrivendo pegni per milioni di euro sui fondi immobiliari di proprietà del Gruppo Dimafin”. L’avvocato Alberto Veccia, che segue molti dipendenti, acquirenti e fornitori della Dimafin, aveva invece riferito che “negli anni immediatamente precedenti il fallimento del Gruppo Dimafin, nonostante la crisi aziendale e gli accordi di ristrutturazione, i “professionisti” incaricati nell’anno 2010/2011 si sono fatti pagare la bellezza di oltre 10 milioni di euro di parcelle. Con il risultato che i professionisti, che avrebbero dovuto salvaguardare l’azienda, non hanno fatto altro che aggravare la situazioni delle casse societarie, vanificando del tutto i finanziamenti che venivano erogati dalle banche”. Che i milioni mancanti vadano ricercati qui?