Delusione e incredulità: sui visi degli imputati del processo “Equilibri” le emozioni sono tangibili. Nei tre giorni passati ad attendere le sentenze hanno sperato che i giudici potessero tener conto di quanto esposto dai loro difensori e avere così una pena ridotta rispetto a quanto invece richiesto dal Pubblico Ministero ma per molti di loro c’è invece stato un aumento della condanna. Le lacrime di Astrid Fragalà, a fine processo, simboleggiavano quanto era accaduto: da un lato la sua gioia per la sentenza che la riguardava (2 anni e mezzo, equivalenti alla libertà tra circa un mese), dall’altro la dura condanna del padre Alessandro Fragalà, a cui il Giudice Matilde Laura Campoli aveva dato 26 anni e 11 mesi di reclusione.
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Ignazio Fragalà, da figura marginale a centrale per i giudici
Uno dei casi più eclatanti è quello di Ignazio Fragalà, condannato a 13 anni e 11 mesi contro i 9 richiesti dal Pubblico Ministero. Ne parliamo con i suoi legali, gli avvocati Alessandro Zottola, Marika Circosta e Cesare Placanica. “Attendiamo il deposito delle motivazioni – dichiara l’avvocato Alessandro Zottola – dopodiché faremo sicuramente sicuramente ricorso in appello”. Quali sono le reazioni a caldo? “La posizione del mio assistito era stata ritenuta anche dal Procuratore, quando ha fatto la propria arringa, un po’ marginale, tanto che per lui era stata richiesta una pena di 9 anni, con tutta una serie di attenuanti, quindi al di sotto dei limiti edittali del reato associativo. Io e il collega Placanica pensavamo di aver smontato quelle poche cose che ci sono nei confronti del signor Ignazio, perché la documentazione e le testimonianze fornite avevano, a nostro modo di vedere, fatto un quadro molto chiaro della figura di questo uomo, che a 70 anni era pressoché incensurato, aveva solo qualcosa a livello societario, ma non aveva di certo un iter storico mafioso. Era il papà di alcune persone. Ma lavorava dalla mattina alla sera nella pasticceria e faceva un secondo lavoro di notte in un panificio a Roma. Non avrebbe avuto il tempo per poter commettere dei reati, le testimonianze e le documentazioni che abbiamo consegnato lo hanno palesato. Il quadro di questa figura era stato in parte recepito anche dal Pm”. Allora perché secondo lei è stato condannato così duramente? “Purtroppo è stato inserito sin dall’inizio in questo meccanismo perché con questa pasticceria, a loro modo di vedere, era il centro economico, ma poi questo è stato smontato da una serie di cose. Lo stesso figlio Sante, collaboratore di giustizia, smonta tutto dicendo ‘mio padre ha sempre lavorato, tenetelo fuori’ e infatti secondo noi Ignazio è completamente fuori da questa associazione qualora ci sia, un’associazione”.
“Al di là delle singole posizioni, per noi il vero problema è la qualificazione giuridica del fatto ai sensi del 416 bis – spiega l’avvocato Marika Circosta, che rappresenta Ignazio Fragalà, Mariangela Fragalà e Salvatore Fragalà – per una ragione molto semplice. Quello che disegna il capo di imputazione è una ‘mafia autoctona’, il cosiddetto ‘Clan Fragalà‘, una mafia di nuovo conio, però la giurisprudenza di legittimità, quando si tratta di mafie autoctone, prevede una serie di requisiti che devono passare necessariamente attraverso l’intrinsecazione del metodo mafioso sul territorio. Nel caso nostro credo che il controllo del territorio, intrinsecazione di atti violenti e fama criminale del gruppo non sia stata dimostrata nel dibattimento. Un rammarico lo abbiamo per le posizioni di Mariangela e Ignazio, in particolare per quest’ultimo l’istruttoria ha chiarito il suo ruolo marginale: si tratta del primo mafioso con doppio lavoro, di giorno pasticcere, di notte panificatore. La condanna che gli è stata inflitta è altissima, evidentemente tutte le circostanze generiche concesse dal Pm sono state negate”. Cosa mi dice degli altri due imputati? “Per Salvatore è stato riconosciuto dalla corte un ruolo marginale: il pubblico ministero aveva chiesto per lui 25 anni, credendo fosse uno dei capi. Poi, leggendo le carte da noi presentate, è stato rivalutato il suo ruolo e giudicato mero partecipe e la pena è stata ridotta a 16 anni. Diverso il discorso per Mariangela: il Pm aveva chiesto 14 anni, mentre la corte ha dato 14 anni e 11 mesi”. Sono quindi stati rivisti i vari ruoli all’interno del clan? “Sì, qualora fosse riconosciuta l’esistenza dello stesso”.
Gli avvocati: “Faremo di tutto per dimostrare l’inesistenza del 416bis”
Sulla stessa linea l’avvocato Giovanna Liburdi, che difende Santo D’Agata, uno degli imputati con le condanne più alte: 24 anni e 7 mesi. “Ovviamente non posso condividere la condanna emessa a carico del mio assistito perché ritengo che dall’istruttoria del processo – una lunga istruttoria dove abbiamo sentito le persone offese anche come testi della difesa, oltre il collaboratore di giustizia – non siano emersi quegli elementi tipici dell’associazione di stampo mafioso, anche alla luce di quella che è stata la recentissima sentenza delle Sezioni Unite dell’11 ottobre 2021 n. 36958. Attendo quindi di leggere le motivazioni di questa elevata condanna a carico di Santo D’Agata per poi proporre impugnazione”. Per D’Agata il Pm aveva proposto 26 anni di reclusione, mentre i giudici, rivedendo le carte processuali, hanno ridotto la pena di un anno e cinque mesi escludendo le circostanze aggravanti del comma 6 e 8 ed assolvendolo per due capi di imputazione (6 e 16). A febbraio, quando avremo le motivazioni – che ritengo saranno molto corpose – riproporremo le nostre discussioni, già presentate in primo grado, auspicando una sentenza assolutamente diversa: noi faremo di tutto per dimostrare l’inesistenza del 416bis, di cui ritengo che non ci siano proprio gli elementi tipici, non ci sono in questo caso gli elementi di un clan mafioso autoctono. Inoltre ritengo che non sia emersa piena prova delle responsabilità e spero che questa sentenza venga rivista”.