Si è conclusa poco fa a Pomezia la proiezione del nuovo documentario di Michele Santoro «Volare», un viaggio dentro il fenomeno della trap music. All’evento, tenutosi presso il teatro dell’IC Via della Tecnicna, sono state invitate le classe quarte del Liceo Pablo Picasso di Pomezia. Al termine della proiezione, a cui hanno preso parte Luca Santarelli (regista e autore) e Andrea Paolini (grafico), studenti e professori sono stati coinvolti in un dibattito.
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Le impressioni degli studenti e il commento degli autori
La proiezione ha suscitato reazioni contrastanti e non tutti hanno apprezzato i contenuti trasmessi. «Alcuni dei protagonisti avevano delle storie da raccontare, un passato difficile fatto di violenze anche in famiglia. Altri decisamente no», ha commentato una studente.
La trap è una forma d’arte? Per gli autori sì, e anche “positiva” in alcuni casi, nel senso che diversi trapper hanno saputo trasformare in musica un passato fatto di violenza e rabbia.
Professori e autori hanno poi discusso se il fenomeno possa o meno essere accostato al Punk degli anni ’70: «Benché radicalmente distanti per epoche e modalità entrambi nascono come moto di ribellione, protesta dal basso. Tuttavia nella trap succede qualcosa di molto particolare: ci si ribella nei testi contro la società ma al tempo stesso l’obiettivo è raggiungere proprio quei valori che la società stessa veicola, ovvero il “far soldi a tutti i costi” ed avere successo e fama», dicono gli autori. «Anche gli strumenti e i canali utilizzati dai trapper sono quelli “istituzionali”, su tutti la ricerca spasmodica della visibilità social».
«Ciò che colpisce maggiormente – commenta ancora una professoressa del Liceo Picasso – è la totale assenza della cultura del lavoro tra questi ragazzi, oltre che alla mancanza di istruzione. Nel documentario la strada nella vita ha essenzialmente un obiettivo: fare soldi. O con la musica, o con la droga. Tutto questo fa riflettere».
Artisti o non artisti. La musica fatta di anni di duro studio e lavoro sembra scomparire all’interno della trap music. Chiunque oggi, anche un ragazzino, è in grado di raggiungere potenzialmente un successo enorme, fatto quest’ultimo impensabile fino a pochi anni fa. «Ma è sbagliato pensare che non abbiamo competenze. E’ sicuramente una musica diversa, di certo non tradizionale, ma le abilità in questo ambiente non sono secondarie», commentano gli autori di Volare.
Il documentario «Volare»
Tatuaggi in faccia, vestiti firmati, culto del successo online e rime al limite della provocazione. Sembrano i segni dell’appartenenza a una tribù, ma sono solo i simboli più evidenti di un nuovo fenomeno che sta spopolando in tutta Italia: la musica Trap.
Attraverso le storie di 4 giovani aspiranti musicisti, Michele Santoro presenta “Volare” che è andato in onda mercoledì 4 dicembre scorso in seconda serata su Rai2. Il programma dipinge un affresco che va oltre gli stereotipi, raccontando sogni e speranze di una generazione che sembra avere come unica arma di riscatto il successo individuale. Un programma di Ram Pace, Cecilia Sala e Luca Santarelli.
Le storie
Chfnik. Nicolò è un giovane trapper della Milano bene. Vive in un bell’appartamento sui Navigli e Chfnik è il suo nome d’arte. Nicolò ha già mosso i primi passi nella scena Trap, ma i suoi videoclip su YouTube si fermano a qualche migliaio di visualizzazioni. Per fare musica ha lasciato il suo lavoro di chef, ma il bisogno di “farcela” si è trasformato per lui in una nevrosi. E il suo amore per la Trap è diventato rancore. Nicolò, come tanti suoi coetanei, è un personaggio tragico, diviso tra la spinta positiva della musica e un lato oscuro fatto di insicurezze e paura del futuro.
«Il problema è il social network, è diventato una cosa che ti fa rodere così tanto il culo che pensi… minchia ma la mia vita fa schifo. Tu vuoi arrivare a quello che vedi, ma quello che vedi lo riesce a ottenere una persona su un milione… tutti i ragazzini vengono ammaliati dalla luce delle cose belle, delle fighe, dei marchi, delle vacanze. (…). Instagram ti porta a pensare: ci sono così tante persone che ce l’hanno fatta dal nulla e apparentemente per caso… deve capitare anche a me».
Yolo. Figlio di immigrati romeni, Yolo è arrivato in Italia all’età di 10 anni. Dopo un breve periodo vissuto a Milano si è trasferito con i genitori a Pantigliate, un piccolo centro dell’hinterland milanese. Le difficoltà con la nuova lingua e l’isolamento da parte dei compagni di scuola l’hanno segnato duramente, e scrivere rime e testi in italiano è stato il suo strumento di riscatto e di crescita. Mettendo nero su bianco i suoi pensieri e la sua storia, Yolo è riuscito ad uscire da una profonda depressione diagnosticatagli già in età scolare, e oggi, grazie alla musica Trap, ha costruito una rete di amicizie e di relazioni che lo ha portato a guadagnarsi il rispetto e la stima di tanti ragazzi che hanno avuto difficoltà simili alle sue. Nel frattempo, sembra che anche il mercato musicale, inizi ad accorgersi di lui…
Jama Don. Nato nel 2000 a Roma da padre italiano e madre rom, Jama Don, nome d’arte di Carlo Santus, ha una storia difficile alle spalle. Sua madre Bianca ha abbandonato il campo nomadi da giovanissima per l’amore di un uomo che poi si è dimostrato possessivo e violento. Bianca è fuggita col figlio in una struttura protetta e ora si è rifatta una vita a Campagnano, un piccolo paese non distante da Roma. La ricchezza, lo sfarzo e la vita condotta dai divi della Trap sono quanto di più distante dalla quotidianità di Carlo, fatta di lunghi pomeriggi nella piazza del paese, di lavoro nella pasticceria di famiglia e di sogni ad occhi aperti con i suoi inseparabili amici. Ma quando si presenta l’occasione di un viaggio a Milano alla ricerca dei contatti giusti nel mondo della Trap, Carlo parte con entusiasmo, perché il successo è solo questione di determinazione.
Christian King. Christian ora si fa chiamare King, “Re”. Perchè oggi grazie alla Trap si sente un re e non è più il ragazzino vittima di bullismo cresciuto nel cuore di Livorno. La fama per Christian è arrivata improvvisamente quando ha vinto un concorso su YouTube chiamato “Quanto costa il tuo outfit?”. In questo format masse di giovani (quasi tutti maschi), sono pronti a mettersi in fila davanti a una telecamera annunciando il prezzo di ogni singolo capo che indossano, compresi gli accessori. Quello che totalizza la somma più alta, vince. Cosa? Visibilità in rete, ovviamente. E Christian King ha sbaragliato la concorrenza presentandosi con 50.000 euro di capi addosso. Da quel giorno la vita di Christian è cambiata: cosa importa avere pochi amici quando hai 30.000 follower su Instagram e sei l’idolo di centinaia di ragazzini?