Uno splendido Sean Penn nell’esordio internazionale di Paolo Sorrentino.
E dopo due anni, Sorrentino chiama il colto e istrionico Sean per cucirgli addosso un personaggio difficile, sofferto, pensato proprio per lui e scritto a quattro mani con Umberto Contarello, sceneggiatore abile e che ama le sfide.
Perché per un nostro autore, girare un film internazionale è sempre un’impresa titanica, perché per stessa autoconsiderazione ( leggasi auto-limitazione) il nostro Cinema si racconta sempre dal di dentro, e non rischia temi internazionali che potrebbero esser non compresi dal grande pubblico.
Ed invece Sorrentino, complice una produzione coraggiosa racconta la storia di Cheyenne, gothic-Rockstar americana che ha costruito trenta anni prima la sua fama nella città più Rock del regno Unito, Dublino, e che per una brutta storia che non possiamo rivelare, decide di fermarsi con la musica e di non vivere, vivendo di rendita tra paure ataviche e noiosi giorni passati a non far nulla, nella sua dimora da sogno insieme alla sua splendida moglie che ha la simpatia contagiosa di Frances McDormand.
La sua routine dublinese viene spezzata dall’annuncio della morte del padre, ebreo americano ex deportato ad Auschwitz, che offre al nostro paradossale personaggio l’occasione per ritrovare la famiglia perduta, le origini, e portare a termine l’ossessione che aveva accompagnato il padre, la ricerca di un criminale nazista che lo aveva oltraggiato durante la detenzione nel campo di concentramento.
Si assiste quasi a due film separati, quello dublinese così statico e minimalista, che poi esplode nei colori, nello spazio e nel ritmo allo sbarco di Cheyenne negli Stati Uniti, tra personaggi folli di New York e l’America dei romanzi “on the road” del Michigan e dello Utah, dove Cheyenne ritroverà se stesso aldilà del carnefice che cerca.
La poesia è l’unico filo conduttore del tutto, quella elargita con semplicità dall’eterno bambino Cheyenne, quella delle vite che egli incontra nel suo cammino, dalla ragazza Dublinese dalla famiglia straziata, alla waitress americana Rachel, una formidabile Kerry Condon, che con un marito disperso in una qualche guerra moderna statunitense, e con un figlio problematico ma così dolce e sensibile da costringere Cheyenne a suonare la chitarra per cantare This must be the place dei Talking Heads a cui si rifà il titolo.
E l’incontro con Rachel, per Cheyenne sarà l’approdo alla consapevolezza del vivere, ed è a lei che con dolcezza disarmante, postula poeticamente: passiamo senza neanche farci caso dall’età in cui si dice “un giorno farò cosi…” all’età in cui si dice “è andata così…”.
Stupendo, cinematograficamente, l’incontro con David Byrne, eccelso nel raccontare sé stesso come artista e a cui il nostro Cheyenne affida i suoi tormenti e la sua inadeguatezza nel gestire un successo che gli ha travolto la vita.
Colonna sonora notevole del già detto David Byrne, mentre i fan di Iggy Pop rimarranno delusi, dato che nei trailer viene fatto largo uso di The Passenger, pezzo cult degli anni ‘70, e che poi nel film viene semplicemente canticchiato da Sean Penn mentre si trucca in un Motel dello Utah. Cheyenne tornerà dal suo viaggio simbolico eppur reale finalmente adulto e “guarito” dal male di vivere. Crediamo che anche Sorrentino, dopo il premio Ecumenico della Giuria a Cannes, sia ormai una certezza del Cinema italiano che vuole uscire dai confini per raccontare come soltanto noi sappiamo fare da sempre la commedia e la tragedia del vivere.
MAURO VALENTINI