Nessun riferimento al passato, infatti, crediamo sia possibile per questo “La piel que habito” tanto siamo lontani dalle atmosfere cariche di colori e ammiccamenti allegri e sessuali dei suoi precedenti film.
Qui, al contrario, tutti i protagonisti sono spudoratamente senza sentimenti né morale, in un vortice di spietatezza da far rabbrividire a mano a mano che ci si inerpica per il tortuoso racconto della storia.
Siamo però sempre in un film di Almodovar, quindi le sorprese, i vezzi artistici e stilistici non mancano di certo, a cominciare dallo svolgimento temporale, che è datato 2012, dove troviamo un noto chirurgo plastico – l’elegante Antonio Banderas – che mostra ad un simposio sulle deturpazioni facciali post-ustioni alcune sue mirabili scoperte riguardo ad una transgenica pelle umana resistente al fuoco e alle punture di insetto.
Lo seguiamo poi nella sua magnifica casa nelle colline di Toledo intento ad esperimenti segreti e misteriosi, ed a trapiantare in gran segreto, novello Frankestein, sul corpo di una ragazza minuta e bellissima che appare consenziente e che ha lo sguardo che trafigge come un dardo di Elena Anaya, segregata in questa reggia moderna, guardata a vista con monitor in ogni angolo dalla fidata Marisa Paredes, sempre presente nei film di Almodovar.
Questo quadro così intricato verrà piano piano svelato con flashback continui, a raccontarci di una storia dolorosa ma fatta di protagonisti a loro modo tutti mediocri e meschini nei sentimenti e nelle azioni.
Per questo sorprende appunto il pessimismo che avvolge Almodovar, che ha sempre raccontato di grandi sofferenze causate dall’elevato sentimentalismo e purezza dei suoi protagonisti, e che invece qui manca in tutti, dal medico alla ragazza prigioniera, e via via in tutti quelli che si incontrano nella storia a personaggi spietati e senza etica quasi fossero usciti da un film di Tarantino.
E, come in una storia “alla Tarantino” (con cui Almodovar ha ferocemente polemizzato qualche tempo fa difendendo il Cinema italiano dalle critiche del creatore di Kill Bill) la banalità del male e la vendetta albergheranno nella vicenda in uno svolgersi di eventi tragicamente piatti seppur terribili.
Ma la storia è così spietata e i protagonisti così inanimati sentimentalmente da render vana per chi guarda tutta quella sofferenza, quasi fosse tragica a prescindere da chi la vive, e questo non rende lo spettatore partecipe del film ma attonito testimone.
E questa per una storia “alla Almodovar” è una novità assoluta.
Rimangono negli occhi le sempre splendide inquadrature, i poetici primi piani delle donne del film, a cui Almodovar chiede sempre di raccontare con gli occhi i sentimenti più profondi, e alcune trovate davvero da artista geniale, come il megaschermo con cui Banderas scruta e ammira la sua cavia umana.
Si può leggere nella storia una filosofica interpretazione della tematica dell’importanza dell’apparire (appunto della pelle che si abita) rispetto all’essere, e al proprio intimo pensiero interiore; alcuni cenni rimandano esplicitamente a questo, come la maniacale pratica dello yoga della bellissima prigioniera e l’innamoramento del “Dottor” Banderas per quel corpo che lui stesso ha ricostruito totalmente distruggendo quello che era prima per un senso estetico tutto proprio.
Di Banderas crediamo di poter dire tutto il bene possibile, relegato nel ruolo di un malvagio che controlla le sue reazioni fisiche, non era facile trasmettere quella spietatezza con il solo sguardo, lui che è abituato ad una fisicità in scena sempre notevole.
Di Elena Anaya abbiamo già lodato le sue doti drammaturgiche, mentre nessuno degli altri co-protagonisti hanno quel tocco di follia geniale che in tutti i film precedenti del Regista spagnolo abbiamo incontrato, deludendo non poco chi ad Almodovar ha regalato da anni il cuore.
MAURO VALENTINI