Eccoci al nuovo appuntamento settimanale con i racconti di Nicola Genovese, autore dei romanzi “Il figlio del prete e la zammara”, “Il nipote del prete” e “Lipari-La Rinascita”.
“Il nome Giovanni deriva dall’ebraico e significa ‘dono del Signore’. In passato era dato a un figlio tanto atteso e desiderato”
Siamo a Roma ai primi del ‘900, dove vivevano Zita e Luigi, una coppia di sposi felici, sempre innamorati come il giorno che si erano conosciuti.
Stavano sempre insieme e ogni occasione era buona per tenersi per mano.
“Come sono belli!”, esclamavano quelli del quartiere quando li vedevano passare. Lui era alto e possente, con un paio di baffi a manubrio, curatissimi, che ne aumentavano il carisma. Lei, minuta ed apparentemente fragile, aveva un viso dai lineamenti armoniosi e nobili.
Un giorno, mentre camminavano spensierati per il quartiere di Trastevere, Luigi era inciampato in una buca e si era ferito al braccio destro.
Al momento non aveva dato molto peso alla cosa, ma con il passare dei giorni la ferita non si rimarginava e il dolore aumentava.
Nonostante le varie visite effettuate con i migliori specialisti e le continue cure da parte della moglie, la ferita non riusciva a guarire.
Ogni giorno l’infezione aumentava, con il rischio di una necrosi e di una successiva cancrena; in quel caso, purtroppo, c’era un solo rimedio: amputare il braccio.
Questo avrebbe rappresentato la rovina per la giovane famiglia, in quanto per un “monco” le prospettive di lavoro sarebbero state ridotte a zero.
Zita a quel punto non sapeva più a quale santo votarsi: vagava per tutto il quartiere, afflitta e disperata in cerca d’aiuto, un qualsiasi aiuto…
Ognuno le diceva la sua, facendo le più disparate diagnosi, senza, comunque, cavare un ragno dal buco.
Aveva quasi perso ogni speranza!
Una sera stava rientrando a casa passando per Via Santa Maria dell’Orto, immersa nei suoi pensieri.
Era buio pesto, per la strada non c’era anima viva.
Per essere Giugno era abbastanza freddo, ma forse il freddo veniva principalmente dal suo cuore anche perché, con il suo stato d’animo, c’era poco da stare allegri.
Un brivido le corse per la schiena; si stava stringendo nel suo scialle, quando le si parò davanti una strana vecchietta.
Sulle prime la intimorì…ma poi quella, scusandosi per averle procurato uno spavento, le disse che aveva saputo della sua richiesta d’aiuto.
La donna, minuta come lei, aveva un viso completamente coperto da rughe, sembrava avesse mille anni, ma la sua voce era quanto di più melodioso avesse mai sentito. Sembrava un canto più che una conversazione.
Le disse subito: se vuoi guarire tuo marito, domani dovrai procurarti una tartaruga, la devi trafiggere con un coltello a punta e raccogliere il suo sangue.
Poi la devi seppellire, insieme al coltello in un luogo remoto, dove non dovrete mai più tornare.
Quel posto lo devi letteralmente cancellare dalla mente.
Tutto questo lo devi fare la notte del 23 Giugno, la notte di San Giovanni, poi cura con il sangue della tartaruga la ferita e vedrai che tuo marito presto guarirà.
La donna, così come era apparsa, sparì nella notte nebbiosa.
Zita così fece. Poco a poco ,la ferita si risanò.
In un primo momento Luigi era scettico, ma poi la diffidenza si trasformò in incredulità.
In ultimo fu preso da una irrefrenabile felicità.
Il sacrificio della tartaruga era servito unicamente a fin di bene per salvare una vita.
Il giorno seguente “miracolosamente” la ferita guarì.
Zita cercò in tutti i modi di incontrare la “vecchietta” per ringraziarla, ma nessuno la conosceva e tanto meno l’avevano mai vista nel quartiere.
Sicuramente quello era stato il “miracolo” di un angelo con le sembianze di una vecchietta.
Seguì un altro miracolo quando Zita annunciò a Luigi di aspettare un bambino.
Era il primo figlio, tanto desiderato, e in memoria della prodigiosa notte delle streghe, lo chiamarono Giovanni.
Nicola Genovese
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