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Cosa significa il “Buttarla in caciara” usato spesso dai romani?

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Esistono svariati modi per dire che stai creando scompiglio ma, se sei romano, nulla rende meglio l’idea di un colorito “stai buttando tutto in caciara”. Ma cos’è, di preciso, che “staremmo buttando”? E dove? In cosa consiste, soprattutto, la “caciara”? A cosa si deve quest’espressione e perché a Roma è tanto nota? Scopriamolo insieme.

Cosa vuol dire a Roma “buttarla in caciara”?

Se qualcuno vi dice che state buttando in caciara, le cose sono due: o è un rimprovero, oppure vi sta prendendo un po’ in giro. A Roma la caciara è associata a “fare chiasso”, inteso come confusione e disordine. In alcuni casi, però, si intende quando una persona fa discorsi o ragionamenti senza filo logico, sempre facendo riferimento a un senso di caos. È una frase molto usata nel dialetto romanesco, talmente diffusa da essere entrara poi nel vocabolario della lingua italiana. Le origini di questo modo di dire, però, sono molto precise e collocano l’espressione al Centro Italia. Sembra che il detto “buttarla in caciara” fosse tipico nell’Appennino, nelle regioni comprese tra Lazio, Abruzzo e Molise.

Da dove viene il termine

Il termine “caciara”, però, ha origini molto antiche. Sembra che l’accezione in dialetto comparve per la prima volta nel Vocabolario romanesco di Filippo Chiappini, ma le origini del termine siano invece associate ad ambito agricolo-pastorale.

“Caciara” nei dizionari di lingua italiana viene accostato alla parola “caciaia”: si tratta di una costruzione che i pastori dell’Appennino centrale costruivano sino alla fine del XX secolo per far stagionare i formaggi e sistemare le provviste, gli attrezzi e ripararsi in caso di maltempo. Le caciaie svolgevano la funzione di dispense, magazzini ma anche punti di riferimento tra una transumanza e l’altra, alla ricerca dei pascoli migliori. Per conformazione ricordano i trulli pugliesi, ma più piccoli, i nuraghi e i cuiles o pinnettas (le capanne dei pastori) sardi. La struttura è costituita da pietre appena sbozzate, messe insieme senza l’ausilio di malte, collanti o cementi.

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Evoluzione di “caciara”

Come si è arrivati da questo termine a “fare chiasso” però? C’è da dire che la prima interpretazione di “caciara” fosse proprio una deformazione dialettale di “gazzarra”, il cui significato era proprio “chiasso”. Le condizioni in cui poteva crearsi erano tipicamente due. In un caso, il significato originario del termine è riconducibile alle liti che scoppiavano tra i pastori tra un bicchiere e l’altro, spesso per furti. La seconda interpretazione riguarda invece il ruolo del cariato. In genere il caciaro era colui che provvedeva ogni mattina alla sveglia della comunità, uscendo dalla capanna e battendo ritmicamente con un bastone sul fondo di un secchio (il cosiddetto “battisecchio”).

Modi di dire a Roma

Daje, t’accolli, stacce: le parole romane a cui non possiamo rinunciare

Il dialetto romano è uno dei più apprezzati in Italia, complice anche la ribalta di trend del momento come la serie Netflix di Zerocalcare o l’ilarità di alcune espressioni usate nel vocabolario comune. Tra queste “daje”, “stacce” che sono state adottate per simpatia anche da chi non è di Roma. Spesso però sono termini utilizzati per una moda del momento, senza conoscerne senso originale.

Come non iniziare dal “daje”: a metà tra il “andiamo” e il “forza”, viene utilizzata anche come intercalare positivo e di incoraggiamento tra amici. Se qualcuno ci dice “T’accolli” non è un buon segno, perché vuol dire che siamo appiccicosi. “Stacce”, meglio se accompagnato con alzatina di spalle e mani all’insu, può voler dire “accettalo”, a cui si può aggiungere un “stai manzo” a voler rincarare lo “stai tranquillo, tanto va così”.

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