A Roma c’è un modo di dire praticamente per ogni cosa. Alcune, però, rientrano a pieno titolo in quello che si può considerare un vero e proprio dizionario romanesco. Vi siete mai chiesti per esempio perché, in determinate occasioni, si usi dire “fare i buffi” con qualcuno? No, non è un riferimento a quanto siate simpatici, se vi capita di “avere” o “fare” dei buffi è più probabile che siate in difficoltà e ve lo stiano facendo notare. Ecco allora come farvi trovare preparati e rispondere a modo.
Perché si dice “avere i buffi”?
Quando si è cominciato a usare “fare i buffi” a Roma?
Secondo quanto riporta il Dizionario della Lingua Italiana De Mauro la parola “buffo” è apparsa nell’italiano nel 1950, ma la sua etimologia resta tutt’oggi incerta. Possiamo ipotizzare due teorie: secondo alcuni si tratterebbe di una voce derivata dal genovese o dal veneziano, creata ricalcando il suono particolare che i tagliaborse producevano quando si dedicavano alla vittima prescelta. L’altra appunto è quella che fa riferimento a origini francesi, già citate.
Cosa vuol dire a Roma “buttarla in caciara”?
Se qualcuno vi dice che state buttando in caciara, le cose sono due: o è un rimprovero, oppure vi sta prendendo un po’ in giro. A Roma la caciara è associata a “fare chiasso”, inteso come confusione e disordine. In alcuni casi, però, si intende quando una persona fa discorsi o ragionamenti senza filo logico, sempre facendo riferimento a un senso di caos. È una frase molto usata nel dialetto romanesco, talmente diffusa da essere entrara poi nel vocabolario della lingua italiana. Le origini di questo modo di dire, però, sono molto precise e collocano l’espressione al Centro Italia. Sembra che il detto “buttarla in caciara” fosse tipico nell’Appennino, nelle regioni comprese tra Lazio, Abruzzo e Molise.
“Daje”, “t’accolli”, “stacce”: le parole romane a cui non possiamo rinunciare
Come non iniziare dal “daje”: a metà tra il “andiamo” e il “forza”, viene utilizzata anche come intercalare positivo e di incoraggiamento tra amici. Se qualcuno ci dice “T’accolli” non è un buon segno, perché vuol dire che siamo appiccicosi. “Stacce”, meglio se accompagnato con alzatina di spalle e mani all’insu, può voler dire “accettalo”, a cui si può aggiungere un “stai manzo” a voler rincarare lo “stai tranquillo, tanto va così”.
“Na cifra” ha un valore positivo, aggiunge un qualcosa di positivo a quello che stiamo sostenendo (es. “mi piace na crifra” vuol dire “mi piace tantissimo”). Se siamo sfatti, giù di tono o stanchi, ci sentiremo dire probabilmente “aripjate”: ci stanno dicendo di rimetterci a posto, rialzarci o tirarsi su. “M’arimbarza” è un affronto, vuol dire che quello che state dicendo non fa nè caldo nè freddo alla persona, anzi potreste averlo indispettito. “Ndo cojo cojo” indica un procedere a casaccio su un qualcosa, come viene viene. Se siete giovani, potreste sentirvi dire “pischello”, una parola che vuol dire ragazzo ma con accezione bonaria.
Se siete irascibili, ogni tanto vi toccherà “abbozzare”, rassegnarvi, metterci una pietra sopra. Se siete testardi, all’ennesimo no, si trasformerà in “noneeeeee” detto con tono cantilenante, forse. “Che tajo” è un qualcosa di divertente e piacevole, mentre se state guardando male una persona probabilmente la state a “imbruttì”.
Una delle parole meno comprese, poi, è “a buffo”: non c’è un reale significato per questa parola, se non “senza motivo”, senza un perché. Se perdete la pazienza, poi, fate attenzione a “non scapocciare”: a Roma se doveste perdere il controllo (la testa) potreste finire male.