Nove sono i temi vincitori del concorso letterario indetto e promosso dal Comune di Aprilia: i primi 4 con giuria qualificata, 2 per la giuria della critica e 3 con menzione speciale.
“Alla scoperta dell’altro” di Simona Palazzo
Cari nonni,
quando mi accompagnate in piazza Roma per incontrare le mie amiche, vi sento spesso ripetere queste parole: “Quanto è cambiata Aprilia in questi anni!”. Io mi accorgo che le vostre facce non sono sempre sorridenti ma preoccupate. Alcune volte date delle moneta a quel signore che si siede davanti alla chiesa di San Michele o vi chiedete come mai quei bambini così piccoli stanno in giro per la strada invece di essere a scuola a imparare ciò che servirà loro per avere una vita migliore. Sentite tante lingue diverse che non capite e vedete visi di tanti colori che vi incuriosiscono. A volte le facce di queste persone sono provate da una lunga sofferenza dovuta al loro passato a volte sono sorridenti per aver trovato una città che li ha accolti. Voi, però, cari nonni mi dite sempre che una volta, quando giravate per le strade di Aprilia, non c’erano queste persone anzi vi conoscevate e vi salutavate tutti. Allora oggi mettetevi seduti e ascoltate una ragazzina che, come a tante della mia età, tutto ciò non sembra così strano perché questi ragazzi di tanti colori diversi sono presenti nelle nostre aule e abbiamo imparato a conoscerli.
Oggi vi voglio raccontare la storia di uno di questi ragazzi…
Si chiama Niba ha tredici anni come me ma la sua vita finora non è stata come quella di tanti ragazzi della nostra età. Proviene dal Sudan e il viaggio infernale che lo ha portato in Italia e poi ad Aprilia è stato solo il punto di arrivo di una vita dura e piena di sofferenze.
Fino a cinque anni la sua vita scorreva serenamente, la sua famiglia lo riempiva di affetto e lo teneva lontano dai problemi della vita. Suo padre faceva il minatore, guadagnava poco ma bastava per far sopravvivere la famiglia. Un giorno, però, iniziò a tossire. Inizialmente non si preoccuparono ma in seguito la tosse aumentò fino ad impedire al padre di andare a lavorare. Il mercurio proveniente dalla miniera gli aveva devastato i polmoni. Niba stava vicino al suo letto tutto il giorno e non faceva altro che intrattenerlo con le parole da bambino ma capiva che i giorni della sua fine erano vicini. Sua madre era devastata dal dolore e dalla preoccupazione di quello che sarebbe stato per lei e per suo figlio. Una mattina il papà di Niba prese la sua mano e l’avvicinò al petto, poi gli sussurrò delle parole che non riuscì a capire e chiuse gli occhi per sempre. Niba chiamò a squarciagola la madre che stava fuori la capanna, coltivando un piccolo pezzo di terra ma non giunse in tempo. Il padre era morto e con lui le sue speranze per il futuro. Da quel giorno Niba non andò più a scuola nel villaggio vicino ma rimase con la madre per aiutarla nel lavoro nei campi. Un giorno mentre si trovava al fiume per lavare i panni, due uomini gli misero un sacco sulla testa e lo portarono via sulle spalle. A nulla valsero le sue grida di aiuto, nessuno poteva sentirlo né aiutarlo anzi peggiorarono la situazione perché quei due gli diedero un colpo in testa per non sentirlo e Niba perse i sensi. Quando si svegliò, si trovò in un luogo buio e a fatica riusciva a vedere ciò che lo circondava. Scorse delle catene e poi vide altri bambini proprio come lui. Era un ragazzino sveglio quindi capì subito quello che gli stava accadendo: era stato rapito. Ma cosa volevano da lui e dagli altri bambini? Lui così piccolo e fragile? La mattina seguente lo scoprì. Alcuni uomini con delle fruste li vennero a prendere, prima li legarono con delle corde poi li caricarono su un furgone e li portarono fuori del villaggio. Viaggiarono per parecchio tempo fino a quando si fermarono ai piedi di una montagna. Li fecero scendere e diedero ad ognuno di loro una pala e un cesto. Con modi bruschi li mandarono dentro ad un piccolo buco scavato nella montagna e gli indicarono delle pietre. Capì che bisognava trovarle nel buio della caverna ma tutto era così difficile! Non si vedeva, non si respirava, si era da soli anche se intorno a lui c’erano i suoi compagni di sventura. Quella fu la prima di altre interminabili giornate. Si alzava la mattina presto, mangiava un po’ di pane secco e subito dentro quel buco nero dal quale usciva solo quando intorno non c’era più il sole. Non aveva vestiti per coprirsi né un po’ d’amore che gli riscaldasse il cuore.
Passarono così ben sei anni fino a quando un gruppo di militari arrivò alla miniera. Erano armati ma la loro faccia non incuteva terrore. Solo in seguito Niba seppe che era l’esercito delle Nazioni Unite chiamati i Caschi blu che difendevano le persone più deboli e portavano la pace nei luoghi di guerra. Dopo averli liberati li portarono in un luogo sicuro, gli diedero dei panni puliti e finalmente del cibo saporito. Niba trascorse lì dei giorni felici ma qualcosa lo tormentava. Ormai era diventato un ragazzo e aveva voglia di una vita migliore. Si unì ad un gruppo di persone che stavano tentando di fuggire in Europa, terra di pace e di libertà. Il viaggio naturalmente verso la costa mediterranea fu lunghissimo e pieno di difficoltà di ogni genere ma il desiderio di arrivare alla meta era grande. Non appena vide il mare, il cuore gli si riempì di gioia ma come fare ad attraversarlo? Qualcuno gli offrì di salire su una specie di barca ma prima gli chiesero dei soldi. Niba non aveva denaro quindi non poteva salire. Una donna che vide la scena supplicò l’uomo di prenderlo a bordo perché era suo figlio. Lui alla fine accettò ma la donna dovette pagare altri soldi. Dopo due giorni di navigazione in condizioni estreme arrivarono in una terra amica e accogliente: la Sicilia. Rimase lì alcuni giorni e dopo il suo viaggio continuò fino qui, in questa città dell’Agro Pontino già ricca di storia e culture diverse.
Cari nonni, naturalmente Niba mi ha raccontato altre storie ma non voglio annoiarvi troppo. Vi ho voluto solo far conoscere un mio nuovo compagno e un nuovo cittadino di Aprilia. Così capirete meglio anche voi le trasformazioni della città in cui viviamo e del mondo intero e potrete aiutarci a convivere in pace.
“Alla scoperta dell’altro” di Martina Faruolo
Cari nonni,
quando mi accompagnate in piazza Roma per incontrare le mie amiche, vi sento spesso ripetere queste parole: “Quanto è cambiata Aprilia in questi anni!”. Io mi accorgo che le vostre facce non sono sempre sorridenti ma preoccupate. Alcune volte date delle moneta a quel signore che si siede davanti alla chiesa di San Michele o vi chiedete come mai quei bambini così piccoli stanno in giro per la strada invece di essere a scuola a imparare ciò che servirà loro per avere una vita migliore. Sentite tante lingue diverse che non capite e vedete visi di tanti colori che vi incuriosiscono. A volte le facce di queste persone sono provate da una lunga sofferenza dovuta al loro passato a volte sono sorridenti per aver trovato una città che li ha accolti. Voi, però, cari nonni mi dite sempre che una volta, quando giravate per le strade di Aprilia, non c’erano queste persone anzi vi conoscevate e vi salutavate tutti. Allora oggi mettetevi seduti e ascoltate una ragazzina che, come a tante della mia età, tutto ciò non sembra così strano perché questi ragazzi di tanti colori diversi sono presenti nelle nostre aule e abbiamo imparato a conoscerli.
Oggi vi voglio raccontare la storia di uno di questi ragazzi…
Si chiama Niba ha tredici anni come me ma la sua vita finora non è stata come quella di tanti ragazzi della nostra età. Proviene dal Sudan e il viaggio infernale che lo ha portato in Italia e poi ad Aprilia è stato solo il punto di arrivo di una vita dura e piena di sofferenze.
Fino a cinque anni la sua vita scorreva serenamente, la sua famiglia lo riempiva di affetto e lo teneva lontano dai problemi della vita. Suo padre faceva il minatore, guadagnava poco ma bastava per far sopravvivere la famiglia. Un giorno, però, iniziò a tossire. Inizialmente non si preoccuparono ma in seguito la tosse aumentò fino ad impedire al padre di andare a lavorare. Il mercurio proveniente dalla miniera gli aveva devastato i polmoni. Niba stava vicino al suo letto tutto il giorno e non faceva altro che intrattenerlo con le parole da bambino ma capiva che i giorni della sua fine erano vicini. Sua madre era devastata dal dolore e dalla preoccupazione di quello che sarebbe stato per lei e per suo figlio. Una mattina il papà di Niba prese la sua mano e l’avvicinò al petto, poi gli sussurrò delle parole che non riuscì a capire e chiuse gli occhi per sempre. Niba chiamò a squarciagola la madre che stava fuori la capanna, coltivando un piccolo pezzo di terra ma non giunse in tempo. Il padre era morto e con lui le sue speranze per il futuro. Da quel giorno Niba non andò più a scuola nel villaggio vicino ma rimase con la madre per aiutarla nel lavoro nei campi. Un giorno mentre si trovava al fiume per lavare i panni, due uomini gli misero un sacco sulla testa e lo portarono via sulle spalle. A nulla valsero le sue grida di aiuto, nessuno poteva sentirlo né aiutarlo anzi peggiorarono la situazione perché quei due gli diedero un colpo in testa per non sentirlo e Niba perse i sensi. Quando si svegliò, si trovò in un luogo buio e a fatica riusciva a vedere ciò che lo circondava. Scorse delle catene e poi vide altri bambini proprio come lui. Era un ragazzino sveglio quindi capì subito quello che gli stava accadendo: era stato rapito. Ma cosa volevano da lui e dagli altri bambini? Lui così piccolo e fragile? La mattina seguente lo scoprì. Alcuni uomini con delle fruste li vennero a prendere, prima li legarono con delle corde poi li caricarono su un furgone e li portarono fuori del villaggio. Viaggiarono per parecchio tempo fino a quando si fermarono ai piedi di una montagna. Li fecero scendere e diedero ad ognuno di loro una pala e un cesto. Con modi bruschi li mandarono dentro ad un piccolo buco scavato nella montagna e gli indicarono delle pietre. Capì che bisognava trovarle nel buio della caverna ma tutto era così difficile! Non si vedeva, non si respirava, si era da soli anche se intorno a lui c’erano i suoi compagni di sventura. Quella fu la prima di altre interminabili giornate. Si alzava la mattina presto, mangiava un po’ di pane secco e subito dentro quel buco nero dal quale usciva solo quando intorno non c’era più il sole. Non aveva vestiti per coprirsi né un po’ d’amore che gli riscaldasse il cuore.
Passarono così ben sei anni fino a quando un gruppo di militari arrivò alla miniera. Erano armati ma la loro faccia non incuteva terrore. Solo in seguito Niba seppe che era l’esercito delle Nazioni Unite chiamati i Caschi blu che difendevano le persone più deboli e portavano la pace nei luoghi di guerra. Dopo averli liberati li portarono in un luogo sicuro, gli diedero dei panni puliti e finalmente del cibo saporito. Niba trascorse lì dei giorni felici ma qualcosa lo tormentava. Ormai era diventato un ragazzo e aveva voglia di una vita migliore. Si unì ad un gruppo di persone che stavano tentando di fuggire in Europa, terra di pace e di libertà. Il viaggio naturalmente verso la costa mediterranea fu lunghissimo e pieno di difficoltà di ogni genere ma il desiderio di arrivare alla meta era grande. Non appena vide il mare, il cuore gli si riempì di gioia ma come fare ad attraversarlo? Qualcuno gli offrì di salire su una specie di barca ma prima gli chiesero dei soldi. Niba non aveva denaro quindi non poteva salire. Una donna che vide la scena supplicò l’uomo di prenderlo a bordo perché era suo figlio. Lui alla fine accettò ma la donna dovette pagare altri soldi. Dopo due giorni di navigazione in condizioni estreme arrivarono in una terra amica e accogliente: la Sicilia. Rimase lì alcuni giorni e dopo il suo viaggio continuò fino qui, in questa città dell’Agro Pontino già ricca di storia e culture diverse.
Cari nonni, naturalmente Niba mi ha raccontato altre storie ma non voglio annoiarvi troppo. Vi ho voluto solo far conoscere un mio nuovo compagno e un nuovo cittadino di Aprilia. Così capirete meglio anche voi le trasformazioni della città in cui viviamo e del mondo intero e potrete aiutarci a convivere in pace.
“Il mio amico Alfred” di Chiara Di Benedetto
Cari nonni ora IO voglio raccontarvi una storia, quella di un barbone e di una giovane ragazza e di come le loro vite si incontrarono, anche se solo per poco. La prima volta che lei lo vide era il suo primo giorno da liceale. Quando si era svegliata, quella mattina, tutti i pensieri e le preoccupazioni che avevano riempito le sue giornate estive, si erano affacciati nella sua mente e le avevano dato il buongiorno; così adesso la povera ragazza tentava di scacciare quei pensieri come si fa con quelle mosche testarde che cerchi di mandare via ma che continuano a ronzarti, ostinatamente, attorno alle orecchie. Ad un certo punto dirigendosi verso la scuola, svoltato l’angolo, vide qualcosa che la destò da tutti i suoi pensieri. Era un barbone, un semplice barbone seduto a gambe incrociate all’angolo della strada che portava all’ufficio postale più affollato della cittadina, perciò molte persone gli passavano davanti, senza degnarlo di uno sguardo. Era un uomo alto, leggermene gobbo, aveva la carnagione scura, probabilmente era un emigrato straniero, la sua bianca barba era lunga, ma non troppo, era diverso da tuti i barboni che avesse mai visto. Una volta doveva essere stato un bell’uomo, pensò. Accarezzava pigramente il muso di un cagnolino accovacciato accanto a lui su una coperta a fantasia scozzese, in effetti sembrava che la coperta fosse più per il cane che per l’uomo, che guardava fisso la strada davanti a sé con sguardo spento. Forse era proprio il suo sguardo che l’aveva colpita tanto: aveva due begli occhi castano scuro, ma non erano i soliti, comuni, occhi castani, erano diversi perché avevano una luce particolare, ispiravano un’antica bellezza, quegli occhi avevano visto più di quanto la ragazza avesse o avrebbe mai visto in tutta la sua vita. Di una cosa era certa, tutto ciò di cui prima si preoccupava tanto, il primo giorno di scuola, i compagni, i professori…improvvisamente, le parve così futile e insignificante davanti alla profondità di quegli occhi che si sentì una stupida per essersene angosciata in quel modo. Era tanto impegnata a guardare nel profondo degli occhi dell’uomo, che non si era accorta che lui si era fermato a scrutare i suoi e lei colta nel fatto non poté far altro che sostenere il suo sguardo. Rimasero così, l’una a scorgere le profondità dell’anima dell’altro, la bambina che guardava l’uomo, il barbone che guardava la passante. Fu una frazione di secondo forse, o forse qualche minuto, la ragazza non lo seppe mai, ma in quello sguardo silenzioso si dissero più di quanto avrebbero mai potuto spiegare le semplici parole. Decise che gli avrebbe dato un nome, il barbone dagli occhi profondi sarebbe stato, per lei, Alfred. Da quel giorno in poi tutte le mattine la ragazza guardava l’angolo della strada per vedere se Alfred fosse lì ed Alfred c’era sempre e sempre ricambiò il suo sguardo. Ogni volta l’uomo sperava di scorgere qualcosa di più nei sorridenti occhi di lei, qualcosa che gli avrebbe ricordato la sua vita e i motivi per cui valeva la pena viverla, era la sua “finestra” sulla vita, così la chiamava lui tacitamente, e la ragazza dal canto suo, sperava di scoprire qualcosa di più negli stanchi occhi dell’uomo sulla strada, qualcosa sulla sua storia e sulle cose che aveva visto. Lei era affamata di Sapere, voleva conoscere, voleva scoprire; lui, attraverso di lei, desiderava rivivere, desiderava vivere. Così i nostri due amici vissero di sguardi per un anno intero, fino a quando in una fredda mattina di gennaio la ragazza al ritorno dalla scuola, marciava tutta impettita e infastidita perché la professoressa di italiano aveva assegnato alla classe un tema biografico e aveva annunciato che il tema migliore sarebbe stato premiato; ora, ciò che la indisponeva tanto era che desiderava ardentemente vincere, ma non sapeva proprio su chi scrivere quella biografia…fino a quando non scorse Albert. Stava lì come al solito e a lei venne un’idea. Passandogli davanti fece scivolare “accidentalmente” il dizionario di greco, si chinò per raccoglierlo ma una mano lo afferrò -Tieni- disse Albert con sguardo tra il gentile e il divertito tendendole il dizionario. Lei quasi sussultò nel sentire la sua voce; era italiano, la sua pronuncia era perfetta. –Oh…grazie- fece la ragazza con voce flebile –Classico, eh?- Quindi sapeva leggere, altra cosa di cui aveva dubitato, anche se a questo pensiero si vergognò di sé stessa. –Eh…sì…purtroppo sì- Fece lei, non perché non le piacesse la sua scuola, ma perché desiderava ardentemente scorgere un sorriso su quel volto, e lui non la deluse: sorrise, aveva un sorriso gentile, le ricordò suo nonno. –Anche io ho fatto il classico, sai?- –Davvero?- Lui le sorrise di nuovo. –Posso farle una domanda?- fece lei -Mh-mh- -Le sembrerà un po’ strano ma…mi può raccontare la sua…be la sua…storia?- E gli spiegò del compito –Sai, non mi sembra un buona idea, bambina- Rispose lui, che era troppo vecchio e troppo stanco per rivivere la sua intera vita dal ciglio di una strada. Così lei si congedò un po’ delusa ma l’indomani mattina tornò all’attacco. Si presentò ad Alfred con un cornetto caldo in mano e glielo mise davanti al naso –Per lei- gli disse affettuosamente. –Le bambine non dovrebbero portare da mangiare ai vecchi- fece lui –I vecchi non dovrebbero stare sui marciapiedi- fece lei e scorse un sorrisetto divertito sul volto del vecchio che, rassegnato, afferrò il cornetto e lo addentò. –E così vuoi scrivere della mia vita, eh?- E lei annuì –D’accordo- Si sedettero sulla panchina davanti alla chiesa, con i bronzei occhi di S. Michele a scrutarli dall’alto. –Sono nato qui, il 21 Febbraio 1945, mio padre era un soldato franco-arabo che aveva partecipato allo sbarco di Anzio, mia madre si era innamorata di lui, ma a lui non interessava niente di lei…- le raccontò di quando si trasferirono ad Aprilia e di come lui assistette alla costruzione di ogni palazzo che adesso lei poteva vedere; le disse che era un ex professore di lettere, le descrisse la sua bellissima moglie, morta a causa della leucemia e raccontò degli ultimi anni della sua vita, che aveva trascorso prendendosi cura di lei…fino a quando arrivò il giorno in cui l’avevano cacciato dalla sua casa perché non pagava l’affitto da un anno, la pensione non gli bastava. Fu così che finì sul ciglio del marciapiede di via dei Lauri e quando la guardò di nuovo, finalmente, negli occhi, la ragazza si accorse che stava piangendo. Lei gli sorrise e gli diede uno schioccante bacio sulla guancia –Grazie- disse semplicemente, lo guardò nel profondo degli occhi e finalmente scorse la sua anima. La mattina seguente la ragazza corse per andare a dire ad Alfred che aveva vinto il premio, corse per vedere il suo amico Alfred, corse, per guardare i suoi occhi, per guardare di nuovo la sua anima, ma quando arrivò, quando arrivò davanti a quel remoto angolo di via dei Lauri, c’era la coperta scozzese, c’era il dolce cagnolino di Alfred accucciato sopra, ma Alfred non c’era.
“La dama con l’ermellino” di Lorenzo Martinelli
Caro nonno,
era da molto che volevo parlarti, ma purtroppo non ho avuto il tempo di farlo e quando ne ho avuto bisogno era ormai troppo tardi, perché tu ci avevi già lasciato.
In questo momento, mi sento solo e ho bisogno che qualcuno mi consoli, così ho deciso di scrivere una lettera in modo da affidare alle pagine bianche tutti i miei pensieri. Sono molti i momenti che ho passato insieme a te e che non potrò mai dimenticare. Proprio ieri stavo camminando per Aprilia con alcuni dei miei amici più cari, quando ci siamo ritrovati in piazza Don Luigi Sturzo, luogo in cui hai abitato e lavorato per molti anni e lì sono affiorati i ricordi più belli ed autentici.
Ti ricordi nonno quando, seduti sulla panchina vicino la statua di Padre Pio, passavamo interi pomeriggi a chiacchierare di calcio, argomento da me preferito, oppure quando mi spingevi sull’altalena della piazza quando avevo tre anni.
Questi sono solo alcuni esempi dei momenti trascorsi insieme, ma inquadrano perfettamente la persona che eri: un uomo calmo, sicuro di sé, sempre pronto ad apprendere ciò che non sapeva, e che, soprattutto, mi voleva bene e teneva a me.
È incredibile come solo quella piazza possa aver mosso in me tutti questi ricordi.
Conoscevi tutto di quella piazza; le persone, gli odori, i negozi, la quotidianità, ma non sei a conoscenza della storia di Mirko …
Mirko è un ragazzo della mia età che però non è mai uscito da casa, anche lui abitava in piazza Sturzo, ma nessuno lo conosceva.
Io l’ho scoperto qualche tempo fa quando dovevo far visita ad una zia di mamma che si chiama Pina e che abita proprio nell’appartamento dove prima abitavi tu.
Suonai il citofono di zia, ma nessuno mi rispose …
Trovai comunque il portone aperto e chiesi al portinaio dove abitasse la signora Pina Liquori.
Lui mi rispose che abitava al quinto piano, non capii la lettera dell’interno così mi avventurai sul piano finché non intravidi una porta socchiusa, la mamma mi aveva detto che la zia aveva questa abitudine così decisi di entrare: il buio mi circondava, le pareti di uno strano colore pastello sbiadito sembravano che mi stessero schiacciando, la credenza piena di ragnatele accentuava la mia ansia.
Navigavo in un mare di angoscia… Preso dal panico, mi avvicinai all’uscita per andarmene, ma non ne ebbi il tempo: appena posai la mano sulla maniglia della porta… si chiuse.
L’impatto mi fece sobbalzare, per la paura scaraventai la maniglia per terra.
Non avevo più vie di uscita … ero bloccato in quell’appartamento del terrore.
Cominciai a cercare forsennatamente l’interruttore per accendere la luce…ma niente, non esisteva.
In quel momento mi sentii come Dante, sperduto nella selva oscura e nel buio totale.
Decisi così, di esplorare il resto dell’appartamento. Brancolai nel buio per circa mezz’ora finché non trovai un armadio chiuso a chiave … in quel momento mi assalì una terribile sensazione di inquietudine….una mano toccò la mia spalla … il mio cuore cominciò a battere forte finché non persi i sensi e svenni.
Mi risvegliai in un salottino molto carino e ben arredato: il piccolo divano sistemato con cura risalente agli anni 90, un piccolo tavolino in legno di mogano su cui era poggiato un vaso di tulipani rossi ed una riproduzione (almeno credevo fosse così) di “ La dama con l’ermellino” abbelliva una parete della stanza.
Una voce giunse alle mie orecchie e poco dopo si presentò alla porta un ragazzo della mia stessa età, alto, magro e di carnagione scura, con cui feci subito conoscenza.
Nonno indovina come si chiamava? Sì, esatto, proprio Mirko.
Mi disse che l’appartamento in cui ero capitato era quello che lui e suo padre usavano come soffitta, che l’armadio era chiuso a chiave perché conteneva gli oggetti più cari alla sua famiglia e che era stato lui ad appoggiarmi la mano sulla spalla e ad avermi soccorso e portato nel suo salotto, sperando che io riprendessi i sensi.
Cominciammo a parlare e mi disse che lui proveniva dal Marocco che, purtroppo, i suoi genitori erano divorziati e che lui era venuto in Italia con il padre perché credeva che l’Italia fosse il paese perfetto per vivere in tranquillità. Aggiunse poi, che suo padre era stato un ladro di fama internazionale: aveva restituito tutto ciò che aveva rubato tranne un oggetto a lui caro da cui non poteva separarsi.
Dopo qualche ora decisi di ritirarmi per andare a trovare finalmente mia zia, nell’appartamento indicatomi da Mirko.
Lo salutai e gli chiesi di salutarmi il padre.
Trovai l’appartamento di zia e trascorsi il resto del mio pomeriggio con lei.
Stavo per andarmene quando notai un giornale di circa un anno fa che diceva “Sparita La dama con l‘ ermellino…” Anche se sconvolto, feci finta di niente, tornai a casa per riposarmi dopo una giornata avventurosa anche se vissuta in una piccola piazza di città….
“LA SOLDATESSA” di Maria Pia Servadio
“Cari nonni ora IO voglio raccontarvi una storia” con queste parole attirai l’attenzione dei miei nonni una bella sera di primavera. Le mie parole li lasciarono al quanto stupiti, visto che erano sempre loro, com’è normale che sia, a raccontarmi le loro storie sulla guerra, sull’immigrazione in Australia e sulla loro incredibile vita. Mio nonno, seduto sulla sua solita antica poltrona, vecchia, a mio avviso, di secoli, mi sorrise incuriosito, si avvicinò a me con fare complice e mi incitò a raccontare. Per una sera i ruoli si stavano invertendo, da grande ascoltatrice stavo per diventare oratrice, ed era una bella responsabilità vista la grande abilità di mio nonno nel raccontare storie. “Allora…” mi schiarii la voce per trovare le parole giuste “Immagina nonno una città né piccola né grande, tranquilla e al contempo oscura, colorata ma anche grigia, a volte felice a volte angosciante, una città come tante ma unica. Immagina che in questa città viva una soldatessa, ma non come la intendi tu o i libri di storia. E’ una soldatessa senza divisa, senza medaglie, che non uccide, non usa armi e non fa prigionieri. Questa soldatessa combatte la sua piccola guerra contro le tante difficoltà della sua vita quotidiana. Questa soldatessa è una ragazza semplice, né alta né bassa, né grassa né magra, né bella né brutta, ricca di pregi e piena di difetti. Una ragazza come tante, nella quale tutti possano riscontrarsi, e per questo non penso sia giusto darle un nome.” “E perché mai?” la voce di mio nonno risuonò sconsolata ad interrompere il mio racconto. “Il tuo personaggio è unico ed inimitabile, lo hai creato tu con la tua fantasia, deve essere come un figlio, quindi merita un nome.” Mio nonno amava descrivere ogni personaggio delle sue storie fin nei minimi particolari, li amava tutti e li rendeva sempre speciali. Non c’era mai, nelle sue storie, un personaggio anche solo vagamente simile ad un altro, ed interrompeva a lungo la trama dei suoi racconti per descriverne le caratteristiche fisiche e comportamentali. Ovviamente, a tutti dava un nome, sia che fossero reali o di fantasia. Nella mia testa, invece, la soldatessa doveva essere più generica possibile perché essa doveva rappresentare in se chiunque, come lei, lottava contro i propri piccoli ostacoli quotidiani. Ma, per non deludere mio nonno, intenerita dal suo viso triste, mi rassegnai a darle un nome. Non doveva essere un nome comune, doveva essere un nome splendidamente unico e particolare, che riassumesse in se il significato del mio racconto. Dopo averci riflettuto a lungo, visto che eravamo nel mese di Aprile, arrivò l’illuminazione “Va bene la chiamerò Aprilia”. Soddisfatto, mio nonno mi incitò a continuare. “Ogni giorno la soldatessa comincia la sua battaglia già al mattino prestonel suo quartiere alquanto malfamato. Doveva essere un bel quartiere nei piani del comune, con strade alberate, villette, palazzi, un grande parco, una grande piazza e la cittadella della sport. Ma tutto questo è rimasto sulla carta. Al posto della piazza ora c’è una grande buca simile a una discarica, molti palazzi, un tempo alti e belli, dalle mura di un rosso acceso e splendente, ora sonocadenti e grigi, con le finestre murate, i marciapiedi sono impraticabili e bisogna fare molta attenzione a non farsi male. Dopo aver attraversato, con un po’ di paura, il quartiere, inizia la battaglia più pericolosa: andare a scuola. Nessuno può accompagnarla quindi deve andare a piedi. La scuola non è lontanissima ma non esiste una strada diretta che colleghi il quartiere al liceo. La strada più sicura e ben curata s’insinua nella città, rendendo il suo utilizzo altamente sconveniente, c’impiegherebbe davvero troppo tempo, mentre la strada più corta è, sfortunatamente, molto pericolosa. La nostra soldatessa cammina tutti i giorni su questa vecchia strada trafficatissima molto stretta e senza traccia di marciapiede rischiando seriamente la vita ogni mattina”. Mi fermai un attimo per riprendere fiato e vidi il volto di mio nonno velato di tristezza per la sorte dellanostra soldatessa e continuai il mio racconto. “Aprilia arriva finalmente a scuola, un edificio inadeguato per i tanti studenti che ospita. Pensa nonno che non si può fare neanche ginnastica perché in palestra ci sono quattro o cinque classi per volta. Le istituzioni avevano promesso una struttura più moderna e funzionale. Aprilia aveva seguito entusiasta i lavori della nuova scuola tutta e l’estate e aveva il cuore pieno di orgoglio e di gioia. Ma a settembre, all’inizio del nuovo anno scolastico, ecco la grande delusione: la nuova moderna struttura era stata affidata ad un altro istituto. Che duro colpo per la nostra soldatessa! Ma non è finita qui. Dopo la scuola Aprilia deve affrontare una nuova battaglia. Si reca, sempre a piedi, allo stadio comunale per praticare atletica leggera ma la struttura è fatiscente. La pista è distrutta ed usurata, i pezzi di tartan si staccano e si creano vere e proprie buche. Mancano attrezzature e spazio, dato che, oltre alla squadra d’atletica, lo stadio ospita la ben più nota e ben organizzata squadra di calcio. Ma quando piove ecco il disastro. Non c’è uno spazio coperto per allenarsi, quindi Aprilia e i suoi coraggiosi compagni sono costretti a lavorare tra la pioggia e le mille insidiedella pista piena di buche ed allagata. Un giorno, quando la nostra soldatessa stava per finire l’ultimo giro lottando contro la pioggia, il freddo e la pista scivolosa, Aprilia ha perso la sua battaglia, sopraffatta dalla crudeltà del fato e degli agenti atmosferici. A pochi metri dal traguardo finale, simbolo della sua vittoria giornaliera, è caduta e si è rotta una gamba. Al pronto soccorso della clinica privata ha atteso due ore prima di essere visitata, perché, caro nonno, questa ridente e popolosa città non ha un ospedale.” A quel punto presi le mani di mio nonno e guardandolo dritto negli occhi gli dissi: “Ogni giorno Aprilia combatte le sue battaglie. Questa storia non è pari alle tue, ricche di azione, avventure fantastiche e cose simili, ma è una storia che sento mia perché parla di me, dei miei compagni, della mia città”. Mio nonno sorrise comprensivo, stringendomi le mani con fare dolce. “Tieni molto alla tua storia vero cara?” mi chiese con dolcezza. “Tengo alla mia città nonno, alla mia vita, vorrei poter migliorare le cose ma non ne ho il potere. La mia storia la scrivo ogni giorno nonno…Io sono Aprilia, Aprilia sono i miei compagni, Aprilia è la mia città.” risposi fiera, ricambiando il sorriso che mi aveva concesso. Detto ciò, nonno mi abbracciò forte e, con tono amorevole, mi disse “Sii fiera della tua storia cara, rendila ricca e dettagliata e raccontala. IO tifo per te e tifo per Aprilia”. “Lo farò nonno”. Promisi a lui ed a me stessa di far conoscere la storia di Aprilia, ed ora sono qui, a scrivere questa storia per lui, per me e per ricordare i difetti e i pregi miei e della mia città, con la speranza che le cose possano pian piano migliorare.
“Nonno aiutami a far illuminare Aprilia di blu.” di Alessia Accardi Fonseca
Caro nonno,
ti volevo raccontare una storia che ha un nome strano… Autismo.
Come mi hanno detto i miei genitori, ai tempi tuoi non veniva chiamato così. Sai, Nonno, ci tengo molto a raccontartelo perché mio fratello Adamo è autistico. Essere autistici vuol dire che ci metti più tempo ad imparare le cose, anche se, con gli sviluppi della scienza, hanno scoperto che chi è autistico è più intelligente. Tuttavia, non c’è una cura per quelli come lui ma si può solo migliorare con delle terapie specifiche.
Mio fratello è andato in diversi centri di terapia a Roma e Latina perché qui ad Aprilia non abbiamo centri specializzati sull’autismo. In questi centri ha imparato molte cose: come comportarsi con gli altri, a non arrabbiarsi quando si fa male o quando gli viene detto “no”, ha imparato a distinguere sopra, sotto, dietro, avanti, grande, piccolo ed ha imparato a relazionarsi meglio con i bambini e con le persone.
A volte i terapisti che vengono a casa vanno anche a scuola per vedere i progressi che fa, per trovare modi per non farlo agitare o arrabbiare e per aiutare la maestra durante le lezioni.
Mio fratello non parla molto, dice solo poche parole per chiedere qualcosa: a volte ripete le battute di qualche cartone animato e, quando qualcuno gli chiede qualcosa, lui ripete la domanda e poi risponde.
Sai Nonno, lui non ama i posti affollati come il centro commerciale Aprilia2, di sabato e domenica, o le pizzerie ed i ristoranti pieni.
Con mio fratello non siamo mai andati alla festa di San Michele perché, come ti ho detto, non ama i posti affollati e alla festa di San Michele c’è tantissima gente, per questo, o chiamiamo la baby-sitter o papà ci accompagna alla festa e poi ci viene a riprendere. Mio fratello sopporta la confusione solo quando ci sono tutte persone che conosce e quando si diverte tanto (ad esempio alle sue feste o quando è a quelle dei compagni di scuola).
Non mangia molte cose salutari perché lui sceglie il cibo per colore, sapore, forma, odore e addirittura marca: mio fratello riesce a distinguere i cereali di una marca da quelli di una diversa, anche quando sono mischiati e nessun’altro ci riesce.
L’anno scorso io, mia madre, mio padre e mia sorella abbiamo partecipato ad alcuni incontri di raccolta fondi per l’autismo che si sono tenuti uno al centro commerciale “Latina Fiori” a Latina e l’altro, invece, all’uscita della chiesa “Lo Spirito Santo” nel quartiere “Toscanini”, dove viviamo, qui ad Aprilia. Abbiamo distribuito piante di peperoncino, io e mia sorella giravamo nei paraggi per diffondere la notizia. C’erano persone che preferivano dare soldi senza aver nulla in cambio, mentre altre passavano oltre. Una signora ci ha detto che non gli interessava fare beneficenza perché diceva che erano solo soldi buttati… Non è assolutamente vero! Nonno, perché certa gente agisce solo con la testa e mai con il cuore?
Nella chiesa del mio quartiere mio fratello tra due anni dovrà fare la comunione. Il parroco che c’era prima non voleva fargliela fare perché pensava che se mio fratello non conosceva il significato della comunione non aveva senso. Ora è più grande ed il nuovo sacerdote ci ha detto di portarlo in chiesa ogni domenica per farlo abituare. Da circa sei mesi andiamo ogni domenica in chiesa anche con mio fratello. La prima volta è scappato ed ha messo la mano nella fonte battesimale, il parroco si è messo a ridere da sopra l’altare mentre gli altri l’hanno guardato in modo strano. Adesso sta più tranquillo, mentre c’è la messa, quando tutti dicono “amen” e quando c’è silenzio mio fratello dice “amen, Dio Padre” … non so dove l’ha sentito. Dopo la messa, come premio, andiamo tutti insieme al “Parco Europa”, dove lui si diverte molto. Il Parco si trova nel nostro quartiere “A. Toscanini” che è in fase di sviluppo, proprio a pochi metri dalla chiesa Spirito Santo. Lo hanno ristrutturato da poco ed è sempre più bello. Pian piano stanno piantando nuovi alberi in tutta la zona circostante ed è bello vedere che si riempe di verde. Appena entri nel parco c’è un grande gioco con delle scalette, le sali e, da li, si può andare in due direzioni, una dove c’è un ponte e poi, subito dopo, lo scivolo, l’altra dove si trova, prima, un tubo, all’interno del quale poter passare gattonando e, di seguito, un passaggio in corda, del tutto sicuro, su cui poter camminare ed infine un altro scivolo. Adamo si diverte moltissimo. Tra i giochi per bambini, che si trovano nel parco, Adamo preferisce l’altalena e i cavalli a dondolo. Quando è lì, io mi fermo ad osservarlo e vorrei entrare nei suoi pensieri per sapere cosa gli passa per la testa. Magari mentre è sull’altalena immagina di essere libero e di poter volare e quando è sui cavalli a dondolo si sente un cavaliere forte e coraggioso. Non so lui a cosa pensi, di sicuro a qualcosa di straordinario, perchè è “speciale”.
Infatti, Nonno, con mio fratello non serve il navigatore, ad esempio: andiamo al centro di Aprilia, a via dei Lauri, e poiché quella strada la facciamo spesso, lui ci indica la direzione corretta usando il dito e si arrabbia tantissimo se cambiamo strada.
Ogni anno, il due Aprile è la “giornata internazionale dell’autismo”, questa giornata serve per far capire alla gente cos’è l’autismo. Mamma gonfia, ogni anno, dei palloncini blu e li mette fuori al balcone e molti monumenti a Roma e a Latina sono illuminati di blu. Nonno, perché qui ad Aprilia non succede? Sarebbe bello che anche Aprilia, quel giorno, si illuminasse di blu. E magari non solo quel giorno.
Nonno mi sarebbe piaciuto sapere come venivano considerati i bambini come Adamo ai tuoi tempi. Peccato che non puoi raccontarmelo, perché ora non ci sei più! Anche se sei in cielo ti ricorderò per sempre e non ti dimenticherò mai. Tu sei il sole che mai si spegnerà, tu sarai sempre nel mio cuore… Lì, dove sei, c’è ancora una speranza per un mondo migliore.
“Caro nonno” di Giada Pietrangeli
L’altro giorno mi venne in mente quanto in alto possano volare le rondini e se mai potessero oltrepassare il cielo per venire li su da te. Poi mi venne in mente quando da piccola riuscivi a far sciogliere il ghiaccio che mi si era formato dentro, un ghiaccio pieno di rabbia, stress e tristezza; riuscivi a farlo diventare calore solo con le tue braccia infinite e possenti strette intorno al mio corpicino indifeso con un grande abbraccio saggio. Un abbraccio che poteva far tornare la felicità e l’armonia a qualsiasi persona. E così cominciai la mia poesia:
Se fossi calore, scioglierei il tuo ghiaccio
Se fossi inverno, lo riaddormenterei
Se fossi infinito,ti avvolgerei
In un grande abraccio.
Se fossi una farfalla,mi poserei
Su un fiore di nome Lilia
Se fossi una rondine, sai che farei?
Volerei sulla piazza di Aprilia.
Quel “se fossi” continuava a tornarmi in mente e ho pensato che per riavvicinarmi a te potevo solamente diventare o la morte o il finimondo, ma volevo anche far capire alla gente di Aprila e di tutto il mondo quanto eri buono e meraviglioso, ma come potevo fare?
L’amore nei sogni. L’amore di un nonno verso i suoi nipoti. Forse perché sarà colui che se li godrà di meno e sa che non potrà vederli crescere fino in fondo, un dolce sogno per svegliarsi con il sorriso sul volto causato dal ricordo di un caro che ama incondizionatamente e che ci protegge come se fosse un angelo dal viso celeste. E terminai così la mia poesia:
Se fossi morte, andrei da mio nonno
Se fossi amore, capirei il mondo
E sarei i sogni del loro sonno.
Se fossi il finimondo
Incontrerei te nonno
Facendo un grande girotondo.
Rileggendo la poesia mi sono accorta che ero riuscita ad esprimere riflessioni e sensazioni che neanche sapevo di provare. E solo grazie al tuo pensiero!
Grazie nonno, per tutte le volte che ci sei stato, consolandomi e proteggendo i miei sentimenti più profondi e per tutte le volte che entri nei miei pensieri scaldandomi il cuore, l’anima, riaccendendo la fantasia dentro di me e facendomi rammentare sia i bei momenti passati, a ridere e scherzare con te, ma soprattutto a ricordarmi della stupenda e saggia persona che eri.
“Un intruso all’open-day” di Irek Brighenti
-Driin…driin…
-Irek , ciao come va?-
-Ehi! Nonno ti ho chiamato per chiederti se vuoi venire all’open day della scuola Gramsci in via Marco Aurelio qui ad Aprilia, così potrò scegliere la scuola per l’anno prossimo.-
-Certo, non posso mancare!-
-Ti vengo a prendere alle quattro allora!-
Tre ore dopo…!
-Già! Avete capito bene: tre ore dopo… sono ancora lì che aspetto! Sì, perché nonno Giulio, quando ci si mette, non finisce mai, ci tiene a farsi bello e poi prende in giro me che uso il gel!!!-
-Ciao nonno, sei arrivato finalmente!-
-Irek scusami, ho perso un po’ di tempo per mettere a posto i capelli. Ehi! Ti volevo chiedere…
cos’è un open day?-
-Nonno, è un giorno speciale in cui la scuola è aperta e tutti la possono visitare per scegliere quella in cui iscriversi.-
-È importante costruirla una scuola, non visitarla! Tutto questo caos per sceglierne una. Mah!-borbotta e poi continua…
-Io l’ho costruita una scuola, è proprio quella che frequenti tu: “Grazia Deledda”.
Quanta fatica, quanti sacchi di calce dovevo trasportare, ho anche rischiato di perdere l’udito!!!- mi guarda serio.
-Ci sono voluti molti mesi vero nonno?-
-Sì Irek, molti… pensa che all’inizio ci fu un crollo ma poi, passo dopo passo, con tanta fatica siamo riusciti a finirla! Vedessi come era bella, la più grande di tutte, sembrava un’università.
Sorride orgoglioso.
-Lo so nonno e si capisce ancora oggi, sai che lo scorso anno è stata ristrutturata? Abbiamo una palestra mega galattica, tutto l’istituto è stato riverniciato all’esterno.-
-Per fortuna è ancora in buono stato dopo 30 anni. Quindi eravamo stati bravi?- sussurra lui.
Nel frattempo siamo giunti alla Gramsci.
-Nonno! Ti vedo spaesato? Nonno! Nonno! Ti senti bene? Che fai lì impalato?-
-No, è che tutta questa gente mi fa scoppiare la testa!
Non andiamo in quel caos pure noi. Piuttosto restiamo qui in corridoio, ci sono tante belle immagini di Aprilia in bianco e nero sulla parete. Guarda Irek, era il dopo guerra! Aprilia distrutta!-
-Nonno! Ma ancora pensi a quelle cose! È acqua passata ormai! Il 1946 per fortuna è ormai passato!-
-Irek! Tu vivi in pace e non sai quello che succede durante la guerra!… Anzi, quale pace!? Vedi che confusione! Quanta gente sta qui oggi?-
-Perché vanno tutti di fretta e fanno quattro cose insieme?-
Si siede su una poltroncina e continua a borbottare.
-Guarda quella signora, tocca sempre il telefonino con il dito, cammina, parla col figlio, quante cose fa?-
-Nonno devi imparare ad essere multi-tasking.-
-Multi-tasking? Cosa c’entrano ora le tasche?- e ride.
-Wow!!! Nonno, nonno! Guarda quelle aule! Sono piene di lim!-
-Lime? Io non le vedo da nessuna parte!-
-Ma che dici nonno, lim, si dice lim.Vedi? È uno schermo gigante…-
-Si dovrebbero leggere libri!!! Altro che stare davanti a uno schermo o al computer.-
-Nonno! Siamo nel 2016, non negli anni 60! Sarebbe ora che ti comprassi un e-book!
-Ora ci metti pure il cane del vicino? Mi manca solo il cane!
-Nonno smettila di fare lo spiritoso e di prendermi in giro, tra qualche anno ci saranno i libri digitali in tutto il mondo!!! Fattene una ragione-
Due ore più tardi, al ritorno dall’open day …
-Nonno, nonno! È tardi. Ho gli allenamenti di pallanuoto! Andiamo insieme-
-Dov’è la piscina?-
-È la piscina Primavera, si trova nei pressi di via Monti Cimini.-
-Conosco tutta Aprilia meglio delle mie tasche, sono 80 anni che ci abito. Stai in buone mani… arriveremo in un battibaleno!-
Mezz’ora più tardi…
-Nonno è tanto che giriamo inutilmente!-
-Tranquillo arriveremo in un battibaleno.- sbuffa.
-È lo stesso battibaleno di prima? Forse devo spiegarti la strada: gira a destra, sempre dritto, entri in via Monti Cimini, giri a sinistra, di nuovo a destra e siamo arrivati!-
-Nonno, riuscirai a restare sveglio fino alle otto e trenta? Non è che mi molli sul più bello?-
-Cosa…? Noo… ma che dici, non posso!-
-Per favore nonno resisti! Oggi ho anche la partita contro l’Albano! Vieni a fare il “supporter”!
Ti presento il coach Marco!-
-Il che?-
-Il coach nonno…
-Irek perché non parli l’italiano?-
-Nonno sei “out”.-
Finito l’allenamento, durante il tragitto per tornare a casa, ripensando alle ultime battute del nonno, riprendo il discorso.
-Vedi nonno, nella nostra lingua ci sono sempre più parole straniere.-
-Sì, me ne sono reso conto. La gente non sa più parlare. Io ho frequentato la scuola fino alla quinta elementare e senza tablet né smartphone, mi piaceva parlare con gli amici guardandoli negli occhi, seduti sul muretto.-
-Forse hai ragione nonno, ma il mondo va avanti, c’è progresso, la tecnologia avanza…-
-Falla andare – risponde nonno .
-Io mi fermo qui…- aggiunge aprendo lo sportello.
-Io lo guardo, sorrido e lo abbraccio forte forte! Certo forse nonno Giulio è molto “out” ma è il nonno migliore del mondo e sta qui, accanto a me, è nella mia mente e nel mio cuore… più “in” di così!!!
È stata una giornata ricca di emozioni, si unirà a tante altre indimenticabili. Chissà, magari un giorno anche io avrò un nipotino che mi dirà:
-Nonno sei “out”!-
Marina Cozzo