L’omicidio di Massimo D’Antona risale al 20 maggio del 1999, quando il docente universitario e consulente del Ministero del Lavoro fu ucciso con nove colpi di pistola, quello fatale al cuore.
A rivendicare il delitto del giuslavorista, con un documento di 14 pagine, furono le Nuove Brigate Rosse, l’organizzazione di matrice terrorista sorta dopo la disgregazione delle BR.
L’omicidio di Massimo D’Antona
Sono da poco trascorse le otto di mattina del 20 maggio1999, quando il professor Massimo D’Antona, docente universitario e consulente del ministero del Lavoro, viene freddato con nove colpi di pistola, nei pressi della sua abitazione, in via Salaria a Roma. All’altezza dell’incrocio con via Adda, lo aspettano un uomo e una donna, facenti parte del nuovo gruppo terroristico sorto dalle ceneri delle BR: le Nuove Brigate Rosse.
Prima di colpire a morte D’Antona, i due brigatisti si avvicinano al docente e gli parlano per pochi secondi, presumibilmente per accertarsi che si tratti proprio del loro obiettivo. Dopodiché, l’uomo estrae la pistola e gli scarica addosso nove colpi, quello mortale al cuore. Trasportato in ospedale, Massimo D’Antona viene dichiarato morto alle 9.30 del 20 maggio.
L’agguato viene rivendicato poche ore dopo, con un documento di 14 pagine, che porta la firma delle Nuove Brigate Rosse. Dopo la disgregazione delle BR, per via dei duri colpi inferti dalla magistratura e dei tanti arresti, era nato il movimento delle Nuove Brigate Rosse, che con i predecessori aveva in comune perlopiù legami ideologici.
Perché fu ucciso Massimo D’Antona
Per le Nuove BR, il professor Massimo D’Antona era il simbolo della borghesia e dello sfruttamento della classe operaia. Quando morì, D’Antona aveva appena compiuto 51 anni. Originario di Roma, aveva lavorato prima a Catania, come docente del diritto del lavoro, poi a Napoli e infine alla Sapienza di Roma.
Simpatizzante del Partito Comunista, prese parte anche alla consulta giuridica della CGIL. Durante il governo Prodi, viste le sue capacità, fu nominato amministratore straordinario dell’ENAV, l’ente che fornisce servizi alla navigazione aerea. Nel 1998 lasciò l’incarico e fu chiamato come consulente dall’allora ministro del Lavoro, Antonio Bassolino.
In quegli anni, in Italia erano in corso grandi cambiamenti nell’ambito del diritto del lavoro. Il sistema fino ad allora vigente, improntato su contratti nazionali e ampie tutele per i lavoratori, si stava sgretolando, perché accusato di essere troppo rigido. Nel 1997, Massimo D’Alema, segretario del Partito Democratico della Sinistra, iniziò a progettare una maggiore tutela per alcuni lavoratori, a discapito di altre categorie. Negli anni successivi, con una serie di nuove normative, a partire dal “pacchetto Treu”, iniziarono a fare capolino le prime forme di precariato.
D’Antona collaborò con il ministro Treu, dedicandosi principalmente della riforma delle rappresentanze sindacali. Nonostante quindi non si fosse occupato in prima persona della flessibilizzazione, fu scelto dalle Nuove Brigate Rosse come simbolo delle recenti riforme del diritto del lavoro, e quindi diventò un complice del piano per ridurre i diritti della classe operaia.
L’arresto
L’omicidio di Massimo D’Antona fu l’inizio della rappresaglia portata avanti dalle Nuove Brigate Rosse. Tre anni dopo, il 19 marzo del 2022, il gruppo armato uccise il professore universitario e consulente del lavoro, Marco Biagi. Il docente, assassinato sotto casa a Bologna, fu l’ultimo obiettivo delle Nuove Brigate Rosse andato a segno.
Il 2 marzo del 2003, i due membri del commando che aveva ucciso Massimo D’Antona furono fermati dalla polizia su un treno per un normale controllo di routine. Presi dal panico, iniziarono a sparare contro i poliziotti. Mario Galesi, killer di Massimo D’Antona, fu ferito e morì poche ore dopo in ospedale. A morire, sotto i colpi dei terroristi, fu anche l’agente di polizia Emanuele Petri.
La complice e compagna di Mario Galesi, Nadia Desdemona Lioce, fu fermata e arrestata.
Il processo
Per l’omicidio di Massimo D’Antona, 17 persone vennero rinviate a giudizio. Sette per banda armata e omicidio, i restanti dieci per banda armata. Il primo processo si chiuse il primo marzo del 2005. Laura Proietti e Cinzia Banelli furono condannate all’ergastolo.
L’8 luglio di quello stesso anno, la Corte d’assise di Roma condannò all’ergastolo Marco Mezzasalma, Roberto Morandi e Nadia Desdemona Lioce. Pene minori furono inflitte agli altri componenti del gruppo armato, per i quali cadde l’accusa di concorso in omicidio. Paolo Broccatelli fu condannato a nove anni. Diana Blefari Melazzi a nove anni e quattro mesi, Federica Saraceni a quattro anni e otto mesi, Simone Boccaccini a cinque anni, cinque anni e sei mesi furono inflitti a Bruno Di Giovannangelo e ad Antonino Fosso, Michele Mazzei, Francesco Donati e Franco Galloni. Roberto Badeli, i fratelli Maurizio e Fabio Viscido e Alessandro Costa furono assolti.
In secondo grado furono confermati gli ergastoli per Marco Mezzasalma, Roberto Morandi e Nadia Desdemona Lioce, mentre fu ridotta a 20 anni di carcere la pena per Laura Proietti, e a dodici anni per Cinzia Banelli, che si era pentita. Federica Saraceni fu condannata a ventuno anni e sei mesi. Alessandro Costa e Roberto Badel furono assolti in via definitiva, insieme a Franco Galloni, Michele Mazzei, Francesco Donati e Antonino Fosso.
Nell’ultimo grado di giudizio, il 28 giugno 2007, la cassazione confermò le sentenze inflitte dalla corte d’appello: ergastolo per Morandi, Mezzasalma e Lioce e assoluzione per Mazzei, Donati, Fosso e Galloni. Confermate le condanne a ventuno anni e sei mesi per Federica Saraceni, vent’anni per Laura Proietti, dodici anni per Cinzia Banelli, cinque anni e otto mesi per Simone Boccaccini, cinque anni e sei mesi per Bruno Di Giovannangelo e nove anni per Paolo Broccatelli. Nadia Desdemona Lioce si trova ancora oggi all’ergastolo che sconta nel regime del carcere duro del 41bis.