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L’omicidio di Silvia Da Pont, quando l’orrore è nascosto tra le mura di casa

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silvia e candiani

La storia di Silvia Da Pont, giovane cameriera morta in drammatiche circostanze, è una di quelle storie dimenticate, che sembra uscita dalla penna di un bravo narratore, e che – invece – è drammaticamente reale. 

candiani
Omicidio di Silvia Da Pont – Ilcorrieredellacittà.com (FOTO DA YESLIFE)

 

La vicenda, nota anche come caso Candiani, risale all’ottobre del 1951. È il 7 settembre del 1951. Silvia esce di casa per una commissione e non vi fa più ritorno. I Nimmo sporgono denuncia e vengono informati anche i genitori della ragazza, che riferiscono di non averla più vista dal giorno della partenza. Vengono perlustrate la casa e la cantina dei Nimmo, ma non emerge nulla. Al momento della scomparsa, si ipotizza che possa essere fuggita con un uomo, ma il fatto che abbia lasciato i suoi abiti e i suoi risparmi a casa, fanno cadere ben presto la tesi della fuga volontaria. Dalle prime indagini non emerge nessun elemento, e la famiglia Nimmo si trasferisce nella capitale. 

Il suo assassino verrà condannato a 25 anni di reclusione. Di Silvia Da Pont non si parla più fino all’8 agosto del 1957, quando il killer della giovane cameriera muore per un collasso cardiaco nel carcere San Francesco di Parma, dove stava scontando la sua pena.

La storia di Silvia Da Pont

Silvia Da Pont nasce nel 1930 a Cesiomaggiore in provincia di Belluno, da mamma cameriera e papà boscaiolo. Dopo aver lavorato a Biella, trova un lavoro stabile a Busto Arsizio come cameriera presso la famiglia Nimmo. Il capofamiglia e la moglie la trattano con rispetto e le assicurano uno stipendio più che dignitoso. Quando Adelchi Nimmo, dipendente di una compagnia aerea, viene promosso nella sede di Roma, la moglie chiede alla giovane cameriera di seguirli nella capitale. 

Silvia Da Pont è entusiasta della richiesta e non vede l’ora di partire. Prima di farlo, decide di trascorrere un paio di settimane dalla sua famiglia a Cesiomaggiore. È il 7 settembre del 1951. Silvia esce di casa per una commissione e non vi fa più ritorno. I Nimmo sporgono denuncia e vengono informati anche i genitori della ragazza, che riferiscono di non averla più vista dal giorno della partenza. Vengono perlustrate la casa e la cantina dei Nimmo, ma non emerge nulla. 

Si ipotizza che possa essere fuggita con un uomo, ma il fatto che abbia lasciato i suoi abiti e i suoi risparmi a casa, fanno cadere ben presto la tesi della fuga volontaria. Dalle prime indagini non emerge nessun elemento, e la famiglia Nimmo si trasferisce nella capitale. 

La scoperta del corpo

Il caso finisce nel dimenticatoio. Il 28 ottobre i Nimmo ritornano a Busto Arsizio per concludere il trasloco. È in quell’occasione che i bambini scendono in cantina e chiedono ai genitori di poter portare con sé l’albero di Natale che hanno appena trovato. A quel punto i Nimmo spostano l’albero e scoprono quello che resta del corpo della povera Silvia. Il cadavere è cereo, ed è ridotto a pelle e ossa, mentre Silvia era piuttosto robusta.

L’autopsia rivela che la 21enne è morta di inedia. Si fa strada quindi l’ipotesi del gesto estremo, che però resta in piedi per poco tempo. A occuparsi delle indagini è il capitano dei carabinieri Angelo Mongelli. La villetta dei Nimmo è una bifamiliare. Dall’altra parte vive Carlo Candiani, un 70enne distinto, con due nipotini, ex dipendente del settore tessile.Candiani ha una grande passione per la farmacologia e trascorre molto tempo a preparare decotti e pozioni. Durante la perlustrazione nella casa, i carabinieri notano una cassa impolverata.
Interrogato per ore, alla fine Carlo Candiani confessa. Racconta di aver incontrato la giovane cameriera mentre saliva le scale, e di averla soccorsa dopo che si era sentita male. Pur avendo provato a rianimarla, la ragazza era deceduta e quindi l’avrebbe portata in cantina nella cassa, con l’aiuto di un amico. Una versione che fa acqua da tutte le parti. Interrogato nuovamente, Candiani racconta la verità: si era invaghito di Silvia e il pensiero di non vederla più lo tormentava. Per questo le avrebbe somministrato un mix di vino e narcotico per circa 18 giorni, in stato di torpore. Una volta morta, l’avrebbe portata in cantina, riposta nella cassa. L’amico e suo complice viene identificato in Vittorio Tosi, ma poco dopo quest’ultimo sparisce senza lasciare tracce, forse buttandosi nel Ticino per il rimorso. 

Il processo

Nell’aprile del 1953 prende il via il processo che vede come unico imputato Carlo Candiani. L’anziano ritratta, affermando che le confessioni gli sono state estorte dai carabinieri. Nonostante i tentativi dei suoi legali di dipingere la vittima come una giovane donna dai facili costumi, Carlo Candiani viene condannato a 25 anni di reclusione.

I legali ricorrono in appello e il capo d’imputazione passa da omicidio volontario a preterintenzionale. La condanna viene ridotta a 14 anni di reclusione e di Silvia Da Pont non si parla più fino all’8 agosto del 1957, quando Carlo Candiani muore per un collasso cardiaco nel carcere San Francesco di Parma, dove stava scontando la sua pena.

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