Il ragazzo fu ucciso nella notte del 25 settembre 2005. Per la sua morte sono stati condannati quattro agenti di polizia, che – grazie all’indulto – hanno scontato poco meno della metà della pena inflitta dalla Corte di Cassazione.
Il caso di Federico Aldrovandi ha ispirato anche un documentario: “È stato morto un ragazzo”, diretto da Filippo Vendemmiati.
La morte di Federico Aldrovandi
Federico Aldrovandi nasce a Ferrara il 17 luglio 1987, da Lino – agente di polizia municipale – e Patrizia, impiegata al Comune. Frequenta l’Itis elettronica a Ferrara e fa parte della squadra di calcio della Spal. Tra il karate e il clarinetto, Federico coltiva l’hobby della musica. Sporadicamente lavora come pony express in una pizzeria della zona.
La sera del 25 settembre del 2005, Federico va a un concerto in un centro sociale di Bologna insieme a un gruppo di amici. Dopo la serata, si fa lasciare in strada – in via Ippodromo, a Ferrara – per fare due passi verso casa. Quella sera, come confermato dagli esami post-mortem, Federico Aldrovandi assume una modesta quantità di alcol e droga. Gli amici lo descrivono come lucido e tranquillo e quindi lo lasciano continuare a piedi senza particolare preoccupazione. In quel momento, in zona circola una pattuglia con due poliziotti a bordo, che fermano il 18enne. Gli agenti riferiranno che Federico era un “invasato violento in evidente stato di agitazione”.
I poliziotti riferiscono di essere stati aggrediti e chiamano in aiuto un’altra pattuglia. Nasce una violenta colluttazione, due manganelli vengono trovati spezzati. Pochi minuti dopo le sei del mattino, giunge dagli agenti la richiesta di un’ambulanza che arriva sul posto in breve tempo. I sanitari dichiarano di aver trovato il giovane “riverso a terra, prono, con le mani ammanettate dietro la schiena”. Gli operatori del 118 provano a rianimarlo, ma per Federico non c’è più nulla da fare e ne accertano il decesso per “arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale”.
Il ragazzo viene dichiarato ufficialmente morto dopo le 6 del mattino, ma i genitori saranno informati del decesso del figlio soltanto alle 11, mentre chiamano ospedali e questura per avere notizie del ragazzo. La versione degli agenti è che Federico è deceduto a causa di un malore, ma il corpo del ragazzo racconta ben altro, visto che vengono riscontrate 54 tra lesioni ed ecchimosi.
Lacune e sospetti
Il caso di Federico Aldrovandi mostra, sin da subito, diverse lacune. Dopo mesi di stalli, il 2 gennaio del 2006 arriva la prima svolta: la mamma di Federico apre un blog per far conoscere a tutti la storia del figlio. Il caso diventa nazionale e l’interesse sulla tragica morte del ragazzo si fa sempre più alto.
Il nodo centrale della vicenda sono le perizie discordanti. Da una parte, quella dei magistrati, dall’altra, quella della famiglia. L’esame scientifico commissionato dal pubblico ministero afferma che Federico è morto per una “insufficienza miocardica contrattile acuta dovuta all’aumentata richiesta di ossigeno indotta dallo stress psico-fisico”. Una tesi che però non convince i familiari, che chiedono un ulteriore approfondimento. La seconda perizia accerta che Federico è morto per lo schiacciamento del torace: gli agenti lo avrebbero schiacciato a terra, con le ginocchia sul dorso, bloccandogli il respiro. Per quanto riguarda la quantità di droga assunta, i risultati delle due perizie combaciano, ma secondo i familiari non sarebbe bastata a causare l’arresto respiratorio del ragazzo.
Il processo, tra condanne e indulto
Nel marzo del 2006 i nomi dei quattro agenti intervenuti la mattina del 25 settembre vengono iscritti nel registro degli indagati: l’accusa è di omicidio colposo. Prende il via il processo e una nuova perizia esclude del tutto un’eventuale correlazione tra il decesso di Federico e l’assunzione di droga. L’anno seguente il processo entra nel vivo.
Il professore Gustavo Thiene, incaricato di effettuare una perizia per accertare le cause del decesso, conferma che la morte di Federico Aldrovandi è giunta per asfissia da compressione toracica, quindi lo schiacciamento del cuore. Nel 2009 si chiude il processo di primo grado e i quattro agenti vengono condannati a tre anni e mezzo di reclusione per omicidio colposo, con l’accusa di un “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”.
I quattro poliziotti vengono sospesi per sei mesi. Nonostante la condanna, i quattro beneficiano dell’indulto, e quindi in carcere scontano appena sei mesi di detenzione. Dopo due mesi, l’unica donna dei quattro passa ai domiciliari, beneficiando del decreto svuota-carceri. Trascorso un semestre, gli agenti vengono reintegrati in servizio. Uno di loro resta a casa per una “nevrosi reattiva”, gli altri tornano a lavoro in sedi lontane da Ferrara.