Venerdì 6 aprile all’hotel principe di pomezia si è tenuto un dibattito politico, dal tema “Rompiamo il muro”. Tra gli interventi più interessanti segnaliamo ai nostri lettori quello dell’architetto Paolo Moscogiuri che vi riportiamo di seguito.
“Buonasera, innanzi tutto voglio ringraziare Antonio Di Lisa e Sinistra Italiana per avermi invitato a partecipare a questo importante incontro, per il quale ho preparato un breve intervento che mi accingo a leggere. L’ho intitolato: “Diritto alla Città”, in riferimento all’omonimo libro che il filosofo e sociologo francese Henri Lefebvre, scrisse nel lontano 1968, e che io lessi qualche anno più tardi, da giovane studente di architettura. Questo libro, già dal suo titolo, fu ed è per me rimasto un modello di riferimento.
Solo che lo scrittore viveva allora in una società che aveva come antagonista il capitalismo industriale, e come forza di opposizione la classe operaia. Oggi noi, invece, abbiamo un capitalismo globale e finanziario, ben più subdolo e anonimo, e una classe lavoratrice disgregata e resa schiava da multinazionali vere o virtuali, e in grado di dettare spesso anche gli indirizzi politici.
Ed essendo la città, la cartina al tornasole della realtà sociale, anche su questa possiamo allora leggere la stessa disgregazione: impoverimento dei servizi, inquinamento dell’aria, erosione della campagna, difficoltà negli spostamenti, isolamento delle persone, ecc.; e non è allora mai stato così impellente ristabilire quel “diritto” alla città” dove oramai più della metà della popolazione mondiale vive.
Non possiamo però credere di farcela usando le stesse metodologie amministrative che hanno assecondato tutto questo. Metodologie che rincorrono il sistema avvolgendosi a spirale sull’indebitamento, la privatizzazione dei servizi, e l’assorbimento di tutto ciò che impone il mercato e il sistema neoliberista. C’è bisogno invece di ribaltare i termini di riferimento, e come Erich Fromm ci metteva davanti il dualismo dell’avere o dell’essere, una diversa amministrazione deve scegliere, se dare priorità alla persona o al mero intervento burocratico.
Sembrerebbe la stessa cosa, ma proverò a dimostrare il contrario. E ci proverò sfidando addirittura una scienza esatta: la matematica.
Vado perciò a dimostrare con degli esempi, che la cosiddetta “Proprietà Commutativa” che recita: “cambiando l’ordine degli addendi o dei fattori, il risultato non cambia”. in urbanistica e tanto meno in politica, non è valida. Cioè 3+2 o 2+3 non danno entrambi come risultato 5.
Prendiamo ad esempio la costruzione di un percorso, che naturalmente necessita di una strada e di chi la percorre: la persona. Secondo la proprietà che abbiamo appena citato, lo possiamo realizzare o “mettendo avanti” l’addendo strada, o quello della persona, senza che il risultato cambi. Ma non è così, perché nel primo caso, otterremo soprattutto un percorso veicolare che soddisfa l’automobilista, adulto con patente, e in buono stato di salute; nel secondo, “mettendo avanti” la persona, il percorso sarà allora costruito per l’intera comunità: sarà cioè attraversabile in sicurezza da un bambino o da un disabile, avrà punti di sosta per l’anziano, faciliterà le relazioni umane, permetterà lo scorrimento delle biciclette e del traffico automobilistico.
È evidente allora che per raggiungere lo scopo di dare sempre e comunque priorità alla persona, che le forze politiche al governo della città non possono più agire con interventi parcellizzati, ma secondo un piano organico e una cultura valoriale.
Quali sono questi valori e dove si trovano?
Sono a mio avviso: la solidarietà, la condivisione, l’uguaglianza, l’autonomia e la dignità. E si trovano proprio nella tipologia di approccio metodologico dell’atto amministrativo.
Possono sembrare ovvie o addirittura banali, queste mie osservazioni, ma ai ricercatori che nel 1997 le hanno anche strutturate in una disciplina, conosciuta oggi come Universal Design, forse un po’ meno.
Questo approccio metodologico è stato nel 2006 recepito dall’ONU e nel 2007 dall’Italia. Ma evidentemente, e come sempre, per l’Italia è stato solo un atto formale, perché sfido poi a trovare amministrazioni che a loro volta lo abbiano adottato.
Quando i nostri amministratori si insediano, anche se guidati da buoni propositi, si dimenticano subito di “lui”: il cittadino / persona che tanto avevano coccolato in campagna elettorale.
Si occupano, sì, della cosa pubblica, ma come se gli interventi fossero fine a se stessi o al massimo riferiti a una sola categoria alla volta; quando invece non c’è, e non può esserci opera che non riguarda tutte le categorie umane.
Oltre tutto, amministrando in maniera parcellizzata, c’è il rischio di rimanere prigionieri della ragioneria contabile. Quella ragioneria contabile sempre più imposta dalla Comunità Europea e che costringe i Comuni a privatizzare e a svendere i propri servizi pubblici (e io aggiungo: anche il lavoro) a vantaggio del privato.
Ma è invece necessario passare prima di tutto attraverso una vera fase di ascolto delle esigenze, perché “democrazia partecipata” non vuol dire utopisticamente: governare insieme, magari via web, ma decidere solo dopo aver dato voce a tutti.
Ed è tanto più necessario ascoltare le categorie più “fragili”, per le quali è più difficile o impossibile immedesimarsi. Così, per capirci meglio, se il Comune istituisce un servizio navetta per persone con disabilità motoria, può legare il numero dei passaggi mensili al budget a disposizione; e questo può essere comprensibile; ma non anche alla sua destinazione, perché questo invece fa la differenza. Cioè, non possono essere questi passaggi, legati (come avviene oggi a Pomezia), al tragitto: casa – asl – ospedale – medico, e perché non anche al centro commerciale o al cinema o al teatro? La persona con disabilità motoria non è mica disabile anche nell’anima e nella mente. E, in quanto persona, non necessita solo e sempre di cure mediche, ma di vivere e sentirsi come tutti, e quindi di essere aiutata nelle sue relazioni umane: svago, divertimento, cultura.
Forse, bastava solo ascoltarla, prima di decidere.
Ecco, questo è un modo per mettere al centro la persona nella sua totalità; l’altro è un dovuto servizio burocratico, che definisco: “veterinario”.
Questo approccio “valoriale” di amministrare, funziona per tutto, dalla panchina al territorio. Ma l’esempio più lampante sono i rifacimenti dei marciapiedi, perché spesso si lavora per aree, cioè si rifà il marciapiede del lato sinistro con la sua bella rampa e poi magari fra tre anni, ma anche mai, quello del lato destro. E nel frattempo gli attraversamenti sono accessibili solo da un lato, e quando una persona con problemi motori si trova dall’altra parte rimane pericolosamente in mezzo alla strada, o sale sul marciapiede e poi non trova la rampa per scendere. E questo succede perché l’amministrazione stanzia i fondi per area e non per servizio, cioè in maniera parcellizzata e burocratica e non secondo un piano organico e valoriale. Se invece di pensare al marciapiede si fosse pensato prima a chi lo usa, magari il risultato sarebbe stato diverso, perché le strisce zebrate non sono opere di street art orizzontale.
Così come la piazza non è una rotatoria del traffico automobilistico, ma luogo per eccellenza, dove la vita, la cultura e le tradizioni si sedimentano insieme alle azioni quotidiane, ai sogni, alle aspettative e alle speranze della società. Per questo nelle piazze dei nostri borghi, paesi, e città, c’è sempre una statua, un monumento, una fontana, che ricorda eventi storici, magari avvenuti proprio in quel luogo, e la sedimentazione del nuovo si aggiunge alla stratificazione del vecchio.
Una piazza di nuova progettazione invece non può certamente avere già tutto questo, ma deve avere però, le valenze necessarie affinché queste stratificazioni si formino.
Per fare ancora un esempio di casa nostra, pensate a piazza Brodolini. Nel progetto originario c’era quello che ho appena descritto, con il suo richiamo storico al porticato di piazza Indipendenza, di metafisica memoria. C’erano tre terrazzini con affaccio sulla Sughereta, la dedica alla Marina Militare, una fontana e una esedra per piccoli spettacoli. Ma la speculazione edilizia la ridusse ad un moncone e l’assenza culturale, politica e valoriale dell’attuale giunta, l’ha addirittura eliminata per sostituirla con una rotatoria. E i cittadini che avevano presentato una proposta alternativa, non sono stati nemmeno ascoltati. Alla faccia della democrazia partecipata. Almeno però non chiamiamola più piazza.
Spendo ancora qualche parola su questa disgraziata piazza, perché mi permette di introdurre un altro concetto molto importante nella politica del territorio: il concetto
di “limite”, inteso non come confine fisico, ma percepito.
Ogni agglomerato urbano con vocazione di città, ha bisogno di delimitare, anche simbolicamente, il confine fra città consolidata e nuova urbanizzazione. Una volta erano le mura, poi la campagna, perché si costruiva per necessità e non per speculazione. Oggi, con l’espansione a macchia d’olio, nemmeno la campagna può definirsi tale, perché si è trasformata in un “territorio in attesa del costruito”. Tutto questo ha portato il disorientamento del cittadino che non riesce più a formare una mappa mentale della sua città, con la conseguente perdita dei valori di identità ed appartenenza.
E piazza Brodolini, voleva rappresentare proprio questo, segnando una simbolica “porta sud”, in assenza di chiari confini a nord, oggi dati da uno squallido bivio, un benzinaio, cartelloni e vele pubblicitarie, jersey in cemento e uno striminzito ponticello, unico collegamento con la parte est della città, una volta zona industriale, e oggi di servizi. E sapete cosa c’è in progetto per il bivio nord? Una rotatoria, anzi due.
Insomma di esempi se ne possono fare a centinaia: dall’importanza di dotare finalmente la città del suo teatro comunale, al riportare nuovamente i quotidiani in biblioteca, perché motivo di frequentazione dei più anziani, alle cosiddette zone 30, che non sono rappresentate da un cartello con limite di velocità, ma da un sistema di isole ambientali, all’importanza della frequenza dei mezzi pubblici e non solo dalla loro quantità, al raggiungimento facile e veloce della stazione ferroviaria, alla dignità di trovarci una sala d’aspetto, all’accessibilità delle spiagge e di tutti gli edifici pubblici, alla sicurezza… e al non dovere più assistere a squallide e mistificanti operazioni di riqualificazione urbana che passando per il privato danneggiano invece il cittadino. Mi riferisco all’intervento di via Manzoni, dove questa giunta ha propagandato il “felice” abbattimento dell’ecomostro (edificio abbandonato di 3 piani), per concedere poi la costruzione di uno di 5, con relativo taglio di 9 grandi tigli quarantennali, mediante accordo con il privato per farne spazio di cantiere, che in cambio ha fatto opere di manutenzione alla vicina scuola materna, e il Comune ha per giunta dichiarato: “questa è l’urbanistica che ci piace”. Ecco, questa invece è proprio l’urbanistica che bisogna evitare; quella dove il “valore d’uso” diventa “valore di scambio”. Il privato deve fare il privato, esercita i suoi diritti, e le leggi lo tutelano; e il Comune deve fare il Comune, fa rispettare le norme a tutela della collettività e in difesa di quel “Diritto alla Città” dalla quale siamo partiti.
Non ruberò altro tempo a questa importante assemblea, ma spero di aver dato il mio piccolo contributo per un diverso modo di amministrare, che partendo dall’importanza della persona e dei valori globali che questa si porta dietro, senza distinzione di alcun genere, possa essere adottato da un nuovo partito che nasce proprio per rivendicare quei valori della sinistra, persi altrove.