dal film di Sergio Leone, la scena nel cimitero di Riversdale tra sogno e transrealtà
Nel 1984 debuttava nelle sale cinematografiche italiane “C’era una volta in America”, film-testamento del regista Sergio Leone. Rievochiamo, questo film capolavoro con l’artista Francesco Guadagnuolo, in occasione della Commemorazione dei defunti 2016, proprio nella scena riguardante il cimitero di Riversdale in cui Noodles interpretato da Robert De Niro ‘ricerca il suo tempo perduto’, come in un Proust alla ricerca del significato della realtà attraverso la memoria. Francesco Guadagnuolo interpreta con una scultura il luogo tra sogno e transrealtà, la scena nel cimitero di Riversdale, nell’abbraccio metafisico tra l’immagine femminile vista di spalle che piange e l’uomo-manichino, poste sull’urna cineraria. L’intento dell’artista è quello di manifestare le verità soprannaturali che pervadono la nostra vita. Le immagini, scolpiscono “quello che non si percepisce”, cioè l’indefinibile, tanto che il gruppo scultoreo produce nel pubblico sincere commozioni. Il tempo viene dilatato, e ne emerge il distacco dalla vita terrena in una pace surreale. Il film “C’era una volta in America”, narra l’episodio quando Noodles nel 1968 parte per il cimitero di Riversdale cercando il monumento sepolcrale per ritrovare i suoi amici sepolti, incontra la Direttrice del cimitero (Louise Fletcher) dallo sguardo oscuro e rigido, che attribuisce alla scena una situazione di tensione emotiva. All’interno Noodles impersonato da De Niro vede il proprio nome su una targa commemorativa, chiede spiegazione alla Direttrice circa il suo passato in un colloquio quasi irreale. L’espressione delusa dell’attore, divenuto nel frattempo anziano, che ricorda i suoi amici morti fra passato, presente e futuro, ma anche nella meditazione sull’importanza che intercorre tra tempo e reminiscenza. La coppia nell’opera scultorea di Guadagnuolo è costituita da due simulacri atemporali indicanti l’afflizione dell’attimo del commiato, dunque della morte e la separazione dalla vita. Sono figure incorporee nonostante l’esteriorità, sono due essenze-presenze che cercano l’incontro del sentimento-umano. La scena indubbiamente esprime melanconia e fa apparire la tremenda solitudine che a volte ci troviamo a subire durante la vita terrena. Inoltre il transrealismo delle due figure “immobilizza” l’istante e lo contraccambia senza un tempo, presentandolo al di là della realtà, in un’altra dimensione trans-metafisica mortale.
Il poeta e critico teatrale Paolo Guzzi scrive: «Un abbraccio, un ultimo abbraccio, già impossibile, un ultimo tentativo, mal riuscito, di trattenere l’amato, l’amata, ciascuno nel proprio mondo che chiama ineluttabilmente. Non sappiamo se l’uomo/manichino abbracci o sia abbracciato dalla donna, che quasi gli si arrampica addosso. Vediamo un manichino senza volto e immaginiamo che sia trattenuto a fatica nel nostro mondo fatto di carne e di bellezza carnale, appunto, ma il tentativo della donna è inutile. Abbraccia colui che sta scomparendo, la cui corporea realtà è ormai lontana, le sue fattezze indistinte provano a restare, la donna cerca di trattenerlo, ma anche lei, di cui non vediamo il volto, sta per lasciare la presa. La disperazione si immagina per entrambi. Ciascuno scivolerà nel suo mondo, che li separerà. Speriamo soltanto che un giorno l’abbraccio diventerà definitivo, e che si ritroveranno definitivamente abbracciati, insieme».
Infatti, nell’abbraccio scultoreo di Guadagnuolo è come comprendere l’opera di Wagner ne “L’anello del Nibelungo” che per il suo finale immaginò che l’amore rimarrà e rimane la sola salvazione dell’umanità: “…Lasciate che, nel dolore e nella gioia, esista solo l’amore”.