Troppe assenze dal lavoro, lavoratrice impiegata in un museo di Roma, rimasta incinta mediante FIVET e dopo aver vissuto una gravidanza gemellare difficile (con problemi proseguiti anche dopo il parto), viene licenziata ma per il Giudice la neo mamma deve essere reintegrata. L’azienda tuttavia ne dispone il trasferimento in un’altra sede. Il legale della donna: “La ditta deve reinserirla nello stesso posto di lavoro come stabilito dal Tribunale”. Il caso.
Ci occupiamo oggi di una vicenda particolare che arriva dalla Capitale. Una donna, che chiameremo Antonella (nome di fantasia), inizia a lavorare come operaia addetta alle pulizie all’interno di un Museo di Roma. Ad assumerla, nell’agosto 2022, una ditta che ha vinto l’appalto per conto di una società partecipata del Campidoglio che detiene la gestione della struttura museale.
La lavoratrice firma un contratto part-time a tempo indeterminato: purtroppo però, a causa di problemi di salute dovuti ad una gravidanza gemellare a rischio, proseguiti anche dopo il parto (avvenuto nel febbraio precedente, ndr), la donna ha difficoltà a lavorare. E ad inizio del 2024 per la famiglia arriva la doccia fredda: l’azienda le recapita la lettera di licenziamento.
La gravidanza gemellare a rischio: azienda licenzia la neo mamma ma il Giudice la reintegra
Un provvedimento che, chiaramente, mette in seria difficoltà la famiglia, costretta a fare i conti con un’entrata economica in meno. La donna è oggi una neo mamma, madre di due gemelli Giulia e Federico (altri nomi di fantasia), nati a seguito di FIVET – fertilizzazione in vitro con embryo transfer – il 21 febbraio 2022, dunque prima dell’inizio del lavoro. Un percorso per la donna che si è rivelato tutt’altro che semplice e che, purtroppo, ha avuto molte complicazioni tanto da ricevere una “prognosi di gravidanza a rischio per tutta la sua durata“.
L’azienda tuttavia motiva il licenziamento di Antonella, arrivato come un fulmine a ciel sereno il 13 febbraio scorso, per “asserito superamento del periodo di comporto”, ovvero quel lasso di tempo durante il quale il dipendente in malattia ha diritto alla conservazione del posto di lavoro. La donna non ci sta e, chiaramente, si rivolge al Giudice per chiedere l’annullamento del licenziamento e la contestuale reintegra sul posto di lavoro.
L’ordinanza del Tribunale: “Il ricorso è fondato”
La famiglia dunque, con due bambini piccoli, si ritrova senza stipendio. Ma i problemi non finiscono qui. “Anche mio marito aveva perso il lavoro, lavoro che ha ritrovato soltanto recentemente peraltro a tempo determinato. Considerate che la sua prima retribuzione è arrivata a marzo, una situazione che ci ha creato molte difficoltà”, ci spiega la donna. Da qui, a maggior ragione, la decisione di ricorrere contro quanto stabilito dall’azienda. Parte quindi la causa, urgente considerando la difficile situazione economica vissuta dal nucleo familiare, presso il Tribunale di Roma, II sezione del Lavoro; la società decide di rimanere “contumace”, ossia di astenersi dal comparire nel dibattimento.
Ebbene, con ordinanza del 20 maggio 2024 il Tribunale di Roma, II Sezione Lavoro, “ha ritenuto fondato e documentato il ricorso d’urgenza” disponendo “l’immediata reintegra della dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato”, condannando inoltre l’azienda al pagamento degli arretrati maturati nel frattempo (nonché a regolarizzare tutta la parte relativa al computo di contributi previdenziali e TFR, ndr) e alle spese di lite.
Le motivazioni dell’ordinanza
Spiega a tal proposito il Giudice:
“Alla luce dell’insegnamento della Suprema Corte, che si condivide, deve ritenersi che il licenziamento intimato alla ricorrente […] per il protrarsi delle sue assenze dal lavoro, prima del compimento del periodo di comporto, sia da ritenersi ab origine viziato da nullità per violazione della norma imperativa […] dato che spetta al datore provare l’insussistenza del requisito dimensionale minimo richiesto dallo Statuto dei Lavoratori per l’applicazione della tutela reintegratoria”
L’azienda: “Lavoratrice reintegrata ma trasferita”
Purtroppo però il lieto fine della vicenda per la lavoratrice ancora non c’è stato. Eppure già il giorno dopo l’ordinanza del Giudice la signora, ci spiega ora il legale difensore della donna, l’Avv. Guido Alfonsi, si era resa immediatamente disponibile al rientro in servizio, comunicando la circostanza con PEC al datore di lavoro, invitandolo contestualmente alla corresponsione di tutti gli arretrati regolati in dispositivo. Data l’assenza di riscontro, la donna ha quindi notificato un atto di precetto tre giorni dopo. Finalmente, a fine maggio, l’azienda risponde alla donna.
Il lavoro c’è ma da un’altra parte: “Era una lavoratrice fantasma”
Di buone notizie però ce ne sono solo in parte. Se da un lato infatti nella mail inoltrata dalla società si invita la lavoratrice a comparire per la visita medica – all’esito della quale avrebbe dovuto poi prendere servizio – dall’altro però viene indicato che la sede del lavoro non sarà più la stessa, ovvero il luogo di lavoro precedente, bensì un posto diverso, dove la società svolge sempre il medesimo lavoro di pulizie. “Si tratta di un luogo estremamente disagiato e situato ad una notevole distanza rispetto a dove lavoravo prima“, racconta la donna.
Non solo: l’azienda, nella comunicazione, motiva tale decisione nella necessità di “aver dovuto sostituire in modo permanente la figura della lavoratrice” bollando la signora Antonella come “una figura fantasma sull’appalto, viste le sue continue assenze”. Nel momento del suo licenziamento, prosegue la ditta, “per tutela e garanzia della prosecuzione del servizio nel museo, ci siamo adoperati nel radicare chi fino a quel momento ha sopperito alle continue assenze”. Nella lettera la società sottolinea infine comunque “l’esigua distanza della nuova sede di lavoro dalla casa della signora”, parlando al contempo di appalto “per lei comodo” viste e considerate le precedenti assenze anche per malattia. Contestando di fatto quanto asserito dalla signora.
La denuncia-querela della donna
Arriviamo così all’ultimo atto, per il momento, della vicenda. La famiglia infatti ha deciso di ricorrere nuovamente contro l’azienda perché, al di là dei disagi che il trasferimento del luogo di lavoro comporterebbe, non sarebbe in linea di fatto con quanto stabilito del Giudice. Come espresso nell’ordinanza (in nostro possesso, ndr) il Tribunale, lo ribadiamo, parla di reintegra “nel posto di lavoro precedentemente occupato”. Dunque, in linea teorica, presso il Museo per il quale lavorava prima del licenziamento.
“Al di là della gravità dell’affermazione che infanga moralmente la persona della querelante” (il riferimento è all’appellativo di lavoratrice fantasma, ndr) – spiega il legale difensore di Antonella – “viene da interrogarsi sulle reali motivazioni dietro la decisione dell’azienda (e per estensione a chi a monte gestisce la struttura museale), che sta costringendo la mia assistita a recarsi in luogo diverso e disagiato rispetto al precedente. A nostro avviso, emergono profili di sicura rilevanza penale, quali quelli regolati dall’art. 388 c.p. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, ndr) ovvero di altri che l’Autorità Giudiziaria riterrà di ravvisare dai fatti descritti”. La donna ha quindi sporto regolare atto di denuncia-querela presso la Procura: vi terremo pertanto aggiornati sugli sviluppi della vicenda.