Il caso Carretta fa riferimento al triplice omicidio di Giuseppe Carretta, della moglie Marta Chezzi e del figlio Nicola Carretta, il 4 agosto del 1989 a Parma.
Per anni è rimasto sconosciuto il destino della famiglia Carretta, fino a quando – nel 1998 – l’assassino non confessò i tre delitti alle telecamere di Chi l’ha visto?
Il caso Carretta
Il caso Carretta è uno dei casi di cronaca nera più celebri degli ultimi anni. Si tratta della vicenda della famiglia Carretta, scomparsa da Parma nell’agosto del 1989. La famiglia Carretta era così composta: Giuseppe Carretta, 53 anni, sua moglie Marta Chezzi, 50 anni, il figlio maggiore Ferdinando, 27, e il minore, Nicola, 23 anni all’epoca dei fatti. Proprio al secondogenito erano indirizzate le maggiori attenzioni dei genitori, perché a 20 anni aveva iniziato ad avere problemi di tossicodipendenza.
Il clima che si respirava in quella villetta al civico 8 di via Rimini, a Parma, era tutt’altro che sereno. I litigi e le discussioni erano all’ordine del giorno. Proprio in questo contesto, maturò nel maggiore dei fratelli Carretta l’idea di sterminare la sua famiglia. A questo proposito, Ferdinando acquistò una pistola semiautomatica Walther 6.35 in un’armeria di Reggio Emilia. Essendo stato un militare, possedeva un regolare porto d’armi.
La mattina del 4 agosto del 1989, mentre la famiglia Carretta si accingeva a partire per le vacanze, Ferdinando impugnò l’arma e uccise prima il padre, colpendolo con cinque colpi. La madre, uditi gli spari, corse in soccorso del marito e fu colpita da un unico proiettile. L’ultimo a morire fu il fratello Nicola, che rientrò qualche ora dopo e fu sorpreso dal 27enne che gli sparò un colpo di pistola al petto e poi in un occhio.
Dopo il triplice omicidio, Ferdinando Carretta spostò i tre corpi nella vasca di casa ed ebbe tutto il tempo di ripulire minuziosamente la scena del crimine. Il giorno seguente si liberò dei corpi, gettandoli nella discarica di Via Rolo, vicino Parma. I resti dei Carretta non furono mai più ritrovati, così come l’arma del delitto.
La fuga a Londra e i depistaggi
La denuncia di scomparsa fu fatta nel mese di settembre dalla sorella di Marta, Adriana Chezzi. La donna riferì che i Carretta non avevano più fatto ritorno dalle vacanze, come confermato anche dai colleghi di Giuseppe, che lavorava come ragioniere in un’azienda.
Inizialmente, i carabinieri si dissero convinti che si trattasse di un allontanamento volontario. Tra le ipotesi quella di una fuga legata ai fondi neri che il capofamiglia avrebbe riscosso per conto dell’azienda per cui lavorava, con l’intento di rifarsi una vita all’estero. Tre mesi dopo il delitto, il 19 novembre del 1989, durante una diretta televisiva di ‘Chi l’ha visto?‘, un telespettatore segnalò la presenza di un camper Ford Transit, con targa di Parma, in un parcheggio di viale Aretusa, a Milano. I carabinieri accertarono che si trattava proprio di quello in uso alla famiglia Carretta. Era stato il maggiore dei figli a guidarlo fino a lì nel tentativo di depistare le indagini, ma la verità si sarebbe scoperta solo diversi anni dopo.
L’indagine venne quindi passata alla Procura di Milano e affidata a un pm allora sconosciuto, Antonio Di Pietro, che nell’immediatezza dei fatti si disse poco convinto dell’ipotesi di un allontanamento volontario. Dopo i fatti, Ferdinando Carretta si trasferì a Londra, dove visse per diversi anni nel più totale anonimato.
Il 21 novembre del 1998, il killer, che lavorava nella capitale come pony express, fu fermato dalla polizia londinese durante un controllo. Uno degli agenti ricordò di aver già sentito quel cognome e segnalò la presenza dell’italiano alla polizia di Scotland Yard. A quel punto l’Interpol contattò il governo italiano, informandolo della presenza di Ferdinando Carretta nel Regno Unito.
Nelle ore successive, il maggiore dei fratelli Carretta fu interrogato dal procuratore della Repubblica di Parma, che nel frattempo era arrivato a Londra, al quale confessò di non sapere più nulla della sua famiglia da quell’agosto del 1989, quando ne aveva coperto la fuga ai Caraibi, dopo l’ammanco dei fondi neri nelle casse dell’azienda in cui lavorava il padre. La verità però era un’altra. A pochi giorni dalla strage di famiglia, falsificando la firma di Giuseppe Carretta, Ferdinando aveva riscosso un assegno bancario di cinque milioni di lire e lo stesso aveva fatto con un conto di suo fratello, intascando un assegno di un milione. A quel punto si era trasferito per un breve periodo a New York, prima di stabilirsi a Londra.
La confessione dell’omicidio in un video a ‘Chi l’ha visto?’
Rintracciato nella capitale da due giornalisti della trasmissione Chi l’ha visto?, che ampio spazio aveva dedicato al caso della sua famiglia, Ferdinando Carretta confessò il triplice omicidio. “Ho impugnato quell’arma da fuoco e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello” disse al giornalista Giuseppe Rinaldi.
A quel punto furono contattate le autorità italiane e Carretta venne arrestato e portato in Italia. La sua confessione fu trasmessa in televisione il 30 novembre del 1998. Al cospetto del magistrato, ripeté quanto già detto ai giornalisti, raccontando di aver occultato i corpi dei familiari. Il gip Vittorio Zanichelli, che ascoltò la confessione di Ferdinando Carretta, riferì che “non vedeva l’ora di confessare”.
Il processo e la morte
Nella villetta di via Rimini gli uomini dei Ris scoprirono tracce di Dna in un portasapone e in un tassello di gomma. Il 15 aprile 1999 la Corte d’Assise di Parma giudicò il killer – reo confesso – colpevole di triplice omicidio, ma Ferdinando Carretta non scontò alcun giorno di prigione, perché ritenuto incapace di intendere e volere al momento dei fatti. Il killer fu quindi trasferito in una struttura psichiatrica a Castiglione delle Stiviere.
Nel febbraio del 2004 Carretta ha ottenuto la semilibertà e due anni anni dopo è entrato in una comunità di recupero di Forlì. Nel 2009 è uscito dalla comunità di recupero e si è trasferito a Forlì. Proprio nella sua abitazione, il 1° giugno dello scorso anno, Ferdinando Carretta è stato trovato senza vita. Aveva 61 anni e da tempo combatteva contro una grave malattia.