“Gli articoli e le notizie pubblicate in serata sul mio conto riportano ricostruzioni parziali, strumentali e sensazionalistiche, oltre che lesive della mia persona, relativamente ad una vicenda, accaduta nel 2017 dopo una partita di calcio e che oggi mi vede come testimone di un processo penale. Per chiarezza: non ho minimizzato l’episodio in cui è stata coinvolta mia moglie, la persona che amo e stimo di più al mondo”. Arriva con una storia su Instagram la precisazione del centrocampista della Lazio Danilo Cataldi, sentito a Genova come testimone al processo a 15 ultrà del Genoa per i ricatti alla società. E’ quanto ha riportato l’agenzia di stampa Ansa.
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La difesa di Cataldi su Instagram
“Far passare un messaggio diverso è quanto di più offensivo e diffamatorio nei miei confronti, soprattutto in una vicenda del genere – si legge nel post – Credo fermamente nella giustizia e anche per questo mi riservo di agire in ogni sede per tutelare la nostra famiglia”.
La ricostruzione dell’accaduto
“Il calcio a mia moglie? Fu una contestazione minima dei tifosi”. E’ quanto ha detto in aula il calciatore della Lazio Danilo Cataldi, sentito a Genova come testimone al processo a 15 ultrà del Genoa per i ricatti alla società. Una affermazione che ha lasciato perplessi i giudici tanto da fare esclamare al presidente: “Se le sembra una cosa normale che un tifoso tiri un calcio a sua moglie”.
A sferrarlo era stato, secondo la procura, l’ex capo ultrà del Genoa Massimo L. il 7 maggio 2017, che costrinse “il calciatore Cataldi e la moglie a non farsi fotografare da una famiglia di tifosi del Genoa al termine della partita Genoa-Inter perché ‘indegno'”. Cataldi ha in un primo momento minimizzato le pressioni dei tifosi e le aggressioni parlando di “male parole, insulti ma non contatti fisici”. Poi, incalzato dai giudici, ha parlato di spintoni e ha confermato le testimonianze rese durante le indagini.
Tutti i tifosi finiti a processo
A processo ci sono 15 tifosi che erano stati indagati nell’ambito dell’inchiesta sulle estorsioni alla società dal 2010 al 2017. L’indagine era del sostituto Francesca Rombolà e del procuratore aggiunto Francesco Pinto, e aveva portato in carcere Massimo L., Artur M. e Fabrizio F. con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’estorsione e violenza privata per aver estorto al Genoa circa 327 mila euro. Per gli investigatori della squadra mobile, la tifoseria teneva sotto scacco la squadra per garantire la pace del tifo ed evitare altre contestazioni.