Sono trascorsi trentatré anni dal “giallo di via Poma” eppure il caso è ancora aperto. Non c’è una fine per le indagini sulla morte di Simonetta Cesaroni, a stabilirlo la Commissione parlamentare Antimafia che ha deciso di riaprire il fascicolo. Mancano troppi tasselli per sbrogliare la matassa di un omicidio a cui manca tutto: l’arma del delitto, l’orario, il movente dell’assassinio e persino il colpevole. L’unica certezza è che il 7 agosto del 1990 la ragazza fu uccisa con 29 coltellate mentre era al lavoro. Per giungere a una svolta nelle indagini bisogna allora tornare indietro, a ritroso, su ciò che è stato già analizzato dalla Procura di Roma, senza tralasciare nulla.
Chi era Simonetta Cesaroni
Simonetta Cesaroni all’epoca aveva 21anni e lavorava come segretaria al terzo piano di un palazzo a via Poma, al civico 2. Un impiego part time come contabile, che svolgeva con discrezione presso la Reli Sas, uno studio commerciale che aveva tra i suoi clienti la A.I.A.G. (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù). È lì che terminò la vita della ragazza, trovata dai familiari la sera di quel 7 agosto seminuda, stesa in una pozza di sangue (che qualcuno cercò di cancellare) e accoltellata.
La Commissione Antimafia riapre “il giallo di via Poma”
Nella relazione che la Commissione parlamentare Antimafia ha trasmesso alla Procura della Repubblica di Roma i mesi scorsi, sono stati evidenziati undici punti delle indagini sui quali occorre ancora fare chiarezza. Tra questi una macchia di sangue, gruppo A positivo, ritrovata sulla maniglia della porta, per cui non ci sarebbe corrispondenza con nessuno dei sospettati.
L’avvocata Federica Mondani, che assiste i familiari di Simonetta, ha smentito che l’indizio abbia permesso la riapertura del caso, bollandolo come “una sciocchezza“. La legale ha inoltre presentato un nuovo esposto al procuratore capo, Francesco Lo Voi, mentre proprio la Commissione antimafia stendeva una relazione sul caso indicando nuovi spunti possibili. Semmai, tra quelle 32 pagine di relazione, emerge un’intercettazione che sembrerebbe dare una svolta alle attività investigative. Più persone infatti, tra il pomeriggio e la sera del 7 agosto del 1990, sembra sapessero che in quell’ufficio si trovasse un cadavere. Un dialogo registrato, risalente a marzo del 2008 potrebbe allora sbloccare il caso.
Irrisolto 1: l’arma del delitto
Il primo mistero che avvolge il delitto riguarda l’arma con cui Simonetta fu uccisa. Il suo assassino infierì sul corpo della ragazza con 29 colpi, ma non si ha una prova schiacciante sullo strumento che utilizzò. Sicuramente un oggetto tagliente, gli investigatori ipotizzarono un tagliacarte, ma i magistrati di Roma prendono ora al vaglio l’ipotesi di un’arma più incisiva e acuminata, viste le ferite trovate sul corpo della giovane.
Irrisolto 2: orario del decesso
Si sa che il corpo di Simonetta fu ritrovato dagli investigatori della Sezione Omicidi della Squadra Mobile la sera del 7 agosto, verso le 21.30. Tuttavia non è stato possibile appurare l’ora esatta del decesso della ragazza. Chi indagava non misurò la temperatura corporea, tantomeno ci fu un’analisi dei succhi gastrici. La morte viene posizionata indicativamente verso le 17.35 e la tarda serata, ma è un intervallo di tempo troppo ampio in un caso in cui bisogna stringere il più possibile il cerchio.
Irrisolto 3: colpevole e movente
In una sequela di errori, l’enigma più grande resta il movente. Perché Simonetta Cesaroni è morta? Chi l’ha uccisa? Dopo aver indagato diverse piste tra il 1990 e il 2011, i pm romani dovranno rispondere a tali quesiti passando di nuovo in rassegna tutti i protagonisti della vicenda: l’ex fidanzato Raniero Brusco, prima condannato nel processo di primo grado, poi assolto dalla Corte d’Appello, sentenza confermata dalla Cassazione nel 2014. Non furono attribuite a lui le escoriazioni trovate sul seno della ragazza, credute inizialmente morsi.
E ancora Federico Valle, nipote di un architetto che abitava nel palazzo, per cui fu decisa l’archiaviazione, così come Salvatore Volponi, datore di lavoro di Simonetta Cesaroni. Tutti assolti dalla accuse, così come il testimone chiave, morto prima dell’udienza. Tra gli indiziati anche il portiere dello stabile Pietrino Vanacore, morto suicida però nel 2010, tre giorni prima che fosse chiamato alla sbarra a testimoniare contro Brusco. A marzo Vanacore si suicidò gettandosi in mare in Puglia, dove viveva da anni. Gli investigatori trovarono a poca distanza dal corpo un cartello con su scritto in cui l’uomo si congedava sostenendo che “20 anni di sofferenze e di sospetti portano al suicidio”.