È stata rinchiusa in una prigione iraniana per 40 giorni. Alessia Piperno, cresciuta nel quartiere dei Colli Albani a Roma ha vissuto l’inferno in quella cella del carcere di Evin dopo essere stata arrestata a settembre a Teheran. Un lungo periodo di detenzione del quale non ha mai parlato da quando è tornata il 10 novembre scorso, almeno finora, quando ha deciso di rilasciare un’intervista alla trasmissione francese Envoyé spécial, ripresa da La Repubblica.
Il viaggio in Iran
La 30enne romana, ha da sempre la passione per i viaggi e la scorsa estate aveva deciso di andare in Iran. Un viaggio come un altro per lei. Una nuova avventura da raccontare, ma mai immaginava quello che sarebbe stata costretta a subire. All’inizio per lei “tutto funzionava perfettamente. Avevo l’impressione di essere in un Paese europeo. Mi sentivo al sicuro, tutto andava per il verso giusto. Sono rimasta per due mesi in Iran prima che la situazione degenerasse”.
L’arresto nel giorno del suo compleanno
La situazione per Alessia è precipitata quando il 28 settembre scorso viene organizzata una manifestazione a Teheran per protestare contro il governo che fa sparire le ragazze che portano male il velo. Anche Alessia era lì, ed era il giorno del suo compleanno “stavo passando uno dei giorni migliori della mia vita”. Poi insieme ai suoi amici, un polacco, un francese e un iraniano hanno deciso di andare a giovare a un escape game in città. Sono arrivati fuori la sala giochi “stavamo per entrare, ma c’era un uomo a bloccare la porta. Ho chiesto alla mia amica iraniana se potesse dirgli qualcosa. Quando mi sono voltata c’erano quattro auto in strada e 13 persone, tutte molto grosse, ci stavano registrando”.
L’inizio di un incubo
Da quel momento è iniziato un incubo per la 30enne dei Colli Albani che racconta: “Ci hanno intimato di salire in auto senza dare troppe spiegazioni. Uno degli uomini ci ha dato un fazzoletto da legare attorno alla testa. Occhi coperti, mani sulle ginocchia. ‘State zitti’, ci ha detto. La parte più spaventosa è quando ci hanno chiesto di saltare fuori dall’auto. Non sapevo dove fossimo. Forse sotto a un ponte, ma non ne sono sicura. Si sono messi dietro di noi e pensavo ci avrebbero ucciso”.
La detenzione
Si è trattato sicuramente di momenti di terrore, nei quali Alessia avrà pensato ai familiari credendo che non li avrebbe più potuti rivedere, riabbracciare, invece, da quel momento per lei si sono aperte le porte del carcere. Una detenzione che sembrava non finire mai, ma soprattutto senza un motivo. E anche quando la ragazza romana ha chiesto cosa avesse fatto, non ha ricevuto risposte esaustive, anzi… “Mi hanno risposto che il mio amico francese era un criminale. Cosa aveva fatto? A quel punto mi hanno solo detto che il governo francese non era molto collaborativo”.
È stata chiusa in una cella dalla quale poteva uscire due giorni la settimana per cinque minuti per fare una doccia. Nella sua cella non aveva il letto, ma c’erano scarafaggi e insetti e nell’arco della giornata doveva ascoltare grida di disperazione e di dolore che proseguivano ininterrottamente.
Le violenze psicologiche
Alessia ha assicurato non aver subito violenze fisiche “ma psicologiche sì”. La più tremenda per la ragazza è stata farle credere che “mia madre fosse morta, mi dicevano che sarei rimasta in prigione a vita. Hanno detto a tutte le detenute che erano in cella con me che ero una spia quindi ero totalmente isolata. Anche quando dividevo la cella con due detenute nessuna di loro mi parlava”. Isolata anche all’interno dell’istituto penitenziario la 30enne non aveva neanche la possibilità di fare una telefonata alla sua famiglia. Diritto che ha ottenuto solo “con lo sciopero della fame”.
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