Si è chiusa la maxi-inchiesta “Propaggine”, che avrebbe portato la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma a sgominare la prima locale criminale della ‘Ndrangheta nel territorio capitolino. Oggi a rischiare il processo, dopo la notifica del 415 bis, sarebbero 67 indagati, tra i quali emergono i volti di due boss malavitosi della criminalità calabrese: A.C. e V.A. Secondo le indagini, i due erano ai vertici della struttura criminale insediatasi a Roma.
I capi della struttura criminale della ‘Ndrangheta a Roma
I volti di A.C. e V.A, facendo fede alle indagini, erano legati da legami familiari alla ‘Ndrangheta calabrese. Entrambi, infatti, provenivano da storiche famiglie attive sul territorio di Cosoleto, in provincia di Reggio Calabria. A portare alla maxi-inchiesta, è stato il lavoro dei procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò con i pm Giovanni Musarò, Francesco Minisci e Stefano Luciani.
Questa squadra avrebbe contestato, a vario titolo, il gruppo criminale associazione mafiosa, cessione e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni, truffa ai danni dello Stato aggravata dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta, riciclaggio aggravato, favoreggiamento aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa.
L’azione della “locale” a Roma
Il sistema criminale della “locale” legata alla ‘Ndrangheta, operava sul territorio capitolino dal 2015. Nelle intercettazioni emerse lungo le indagini, addirittura si definivano “propaggine di là sotto”. Nella loro azione criminale, gli stessi indagati avrebbero affrontato anche l’ostruzione di diversi magistrati prima attivi in Calabria e successivamente saliti a Roma. Come emerso sempre dalle telefonate intercettate, si tratterebbe dei volti di Pignatone, Cortese e Prestipino, che avevano puntato i fari della giustizia addosso al clan fin dall’esperienza a Cosoleto e Sinopoli.
Per A.C., ci sarebbe il ruolo di leader del gruppo ‘ndranghetista sulla Capitale. Secondo le indagini, lui era il promotore della “locale”, in quanto “aveva avuto l’autorizzazione di crearla a Roma direttamente da Reggio Calabria”. Un lavoro che avrebbe svolto con un secondo boss, ovvero V.A., questo a capo di una costola della locale, composta da cognati, nipoti e altri soggetti malavitosi.
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