“Se sei mamma, non puoi lavorare, non puoi sostenere certi ritmi e non puoi fare carriera”. È questo quello che sempre più spesso, purtroppo, viene detto a giovani donne, che hanno deciso di mettere al mondo un bambino, di vederlo crescere, senza rinunciare al lavoro. Perché essere mamme vuol dire restare donne, non annullarsi, ma continuare a inseguire i propri sogni. C’è chi si dedica solo alla famiglia, chi invece ogni mattina si prepara, esce di casa, va al lavoro. E chi, invece, purtroppo, deve sostenere dei colloqui avvilenti e sentirsi ripetere: ‘sei una mamma’. Come se fosse quasi discriminatorio, come se l’essere genitore andasse in qualche modo a ‘cozzare’ con il lavoro, la carriera professionale. Chi è mamma deve restare ancorata forse a qualcosa di poco soddisfacente, non può sognare in grande, anche se ha studiato. Anche se merita e ha tutte le carte in regola.
La gravidanza spaventa, la crescita di un bambino ancora di più. E non sono pochi, purtroppo, i casi in cui i datori di lavoro di fronte a quella che dovrebbe essere una bella notizia fanno un passo indietro: c’è chi licenzia le donne che aspettano un figlio, chi non le assume più dopo il parto e trova scuse e giustificazioni. Perché se sei madre non puoi essere una lavoratrice. Perché se sei mamma non puoi aiutare l’azienda a crescere e a migliorare. Devi restare a casa, accudire il bambino e accantonare gli studi, la carriera. E Giulia, una ragazza di Roma, lo sa bene: qualche giorno fa lei si è presentata davanti a 6 persone per un colloquio, per una nota compagnia italiana. Ma non è stata giudicata per il suo background professionale, per il suo curriculum, che in realtà non è stato neppure sfogliato. Qualcuno, dall’alto, le ha puntato il dito contro e l’ha guardata con occhi sospetti. Il motivo? Giulia è mamma di un bambino.
Il colloquio di Giulia e le domande poco professionali
“Di recente ho fatto un colloquio per una nota compagnia italiana, inizio a parlare del mio background formativo ed elenco cosa ho imparato dalle mie esperienze lavorative. Un bagaglio non vasto, ma neanche troppo superficiale a 28 anni, direi”. All’inizio tutto sembra normale, spiega Giulia sui social. Poi, però, quel colloquio prende una piega diversa e dalla breve presentazione, le persone che erano di fronte a lei, che la guardavano dall’alto verso il basso, hanno iniziato a farle domande sempre più personali.
“Io non ho nessun problema a descrivermi: sicura rispondo senza farmi intimorire”. E Giulia spiega che sì ha 28 anni, ma è anche una mamma di un bimbo nato durante la pandemia. “Dopo qualche minuto la situazione degenera. La recruiter inizia a chiedermi come farò a lavorare con un bambino di due anni. Se ho pensato che la mia vita con un lavoro sarà ancora più frenetica. Mi chiede con voce provocatoria come farò a trascorrere il giorno di Natale al lavoro anziché a casa con mio figlio. Sempre con lo stesso tono, mi domanda come farò a non partire con lui durante le sue vacanze estive ad agosto e se soffrirò a mandarlo da solo al mare con il papà”. Quasi a dire che non riuscirà, con quel lavoro, a vedere crescere il suo bambino. Quasi a spaventarla, a intimorirla. Ma a loro sembrava importare poco che Giulia aveva un curriculum niente male, tutta l’attenzione era su quel figlio. Che rappresentava quasi un ostacolo.
Niente lavoro
Difficile mantenere la calma, spiegare che oltre a essere mamma c’è di più. C’è una ragazza di 28 anni che vorrebbe lavorare e pensare anche alla sua carriera. E farlo per dare un futuro migliore a quel bambino. Perché di amore si vive, ma non sempre basta: c’è bisogno di solidità economica per tenere in piedi una famiglia. E il lavoro dovrebbe nobilitare tutti.
“Esco dal colloquio distrutta. Sono triste, amareggiata e scoraggiata perché quelle domande hanno, senza alcun limite o filtro, frantumato il mio essere donna. Non mi è stato chiesto cosa ho imparato dalle precedenti esperienze lavorative e neanche quali fossero le mie future aspirazioni”. Nessuna domanda del tipo: ‘Come ti vedi tra 5 anni?’. Perché loro, forse, già lo sapevano e avevano dato il loro giudizio: una mamma con un figlio, forse due, a casa e concentrata sulla crescita dei bimbi. “Sono estremamente dispiaciuta perché un’azienda di un certo calibro mi ha valutata sulla base della mia vita privata” – ha spiegato Giulia. Lei in quel colloquio si è sentita messa da parte, non presa in considerazione per le sue competenze. Perché Giulia è sì una giovane e brava mamma, ma è anche una ragazza che merita e che ha studiato. “A loro una mamma non interessava, punto” – ha concluso la giovane.
E si torna di poco indietro nel tempo, a quelle dichiarazioni di Elisabetta Franchi, nota stilista, che aveva detto a gran voce di voler assumere donne over 40. E non solo per la loro preparazione ed esperienza: secondo lei quelle donne erano già diventate mamme, si erano sposate e non avrebbero ‘causato’ problemi all’azienda. Anzi, avrebbero lavorato h24, dando anima e corpo al lavoro. Che è fondamentale sì, ma non è tutto. In un mondo in cui si parla spesso di sfruttamento o di raccomandati, di posti occupati da chi non merita. E di mamme lasciate a casa quasi ‘colpevoli’ di aver messo al mondo un bambino. Come se la maternità e la carriera non potessero viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda. Come se l’essere genitori fosse quasi una colpa. Perché Giulia lo ha vissuto sulla sua pelle: a quelle persone che aveva di fronte importava poco della sua esperienza e del suo curriculum. È bastata la parola ‘mamma’ per chiuderle la porta in faccia.
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