Si chiama Francesco, ha 27 anni e lo scorso 21 aprile si è laureato indossando ai piedi un vertiginoso tacco 14 di colore rosso. Tacchi con plateau e giacca color glicine: così Francesco si è presentato davanti alla commissione dell’Università di Cassino per discutere la tesi di laurea magistrale in Politiche Sociali, portata a casa a pieni voti cum laude.
Originario di Formia, Francesco D’Angelis in una giornata così emozionante ha usato il proprio corpo per veicolare un messaggio importante e ben preciso: «L’abbigliamento in sé mi piaceva proprio. Mi piaceva quella giacca, mi piaceva quel pantalone. Non c’è una grandissima dietrologia. Invece, la scelta della scarpa è stata accuratissima sia da un punto di vista estetico — perché da buona Bilancia quale sono, ci confessa in tono scherzoso, sono un’esteta — ma anche e soprattutto dal punto di vista simbolico.
Il tacco rosso è infatti la scarpa, il simbolo, l’emblema della violenza sulle donne ma è anche l’origine della lotta delle persone LGBTQI+. Il tacco rosso era una scelta precisa, chiara, un messaggio inequivocabile che volevo lanciare» spiega Francesco, che sottolinea: «Era un messaggio di vicinanza, di solidarietà ma anche un messaggio a chi pensa che affossare il Ddl Zan, che misconoscerci voglia di fatto dire che noi cessiamo di esistere, ma non è così».
La tesi Francesco è chiara: «Non vuol dire che noi smettiamo di esistere, che noi non possiamo fare qualcosa o dobbiamo fare quello che dicono loro. O che qualcuno che ci pesta perché portiamo i tacchi rossi fa bene, perché secondo loro non li dovremo portare. Questo è impensabile, da qui la scelta di usare quei tacchi».
Qual era l’argomento della tua tesi di laurea?
«Portavo una tesi sul corpo e i diritti delle donne, sul legame che c’è tra questi due aspetti. Molto semplicemente, sono partito dai preconcetti che hanno afflitto il genere femminile già dall’Ottocento arrivando fino ai diritti delle donne, quei diritti che le donne hanno conquistato attraverso il proprio corpo»
Un lungo, prezioso excursus storico propedeutico a ciò che Francesco definisce come: «Un femminismo 3.0 che è quello delle questioni odierne quali ad esempio la maternità surrogata, il revenge porn e il Ddl Zan. La linea sottile che collega tutto ciò è proprio il rapporto inscindibile tra i diritti delle donne e il corpo delle donne. Proprio per questo ho voluto usare il mio corpo per lanciare un messaggio. Che faccio, parlo di corpi e diritti e non uso il mio corpo per un messaggio sui diritti? Follia, sarebbe stato incoerente».
Durante la seduta di laurea hai ricevuto delle critiche per il tuo abbigliamento?
«No. Qualche sguardo indiscreto c’è stato, quello sicuramente, ma se ti devo dire che mi è pesato particolarmente no. Un po’ perché questi sguardi non erano così tanto indiscreti, un po’ perché io ho la faccia di bronzo, la poker face, che mi accompagna da ormai 27 anni. Tutti e due gli aspetti hanno concorso all’impenetrabilità della mia anima».
Com’è stato il tuo percorso accademico?
«Non semplice. Io sono stato uno studente lavoratore che viveva da solo e non è facile quando devi studiare e lavorare. Poi hai una casa da portare avanti, un compagno, i problemi di coppia e i problemi della vita quotidiana. È stato molto complicato avere l’attenzione e la concentrazione necessarie per studiare e studiare bene, con una media del 29, quando hai tutto questo a cui pensare. È complicato».
Quali sono i tuoi progetti futuri ora che hai terminato l’università?
«Innanzitutto, il mio progetto è quello di iniziare a fare il mio lavoro e cioè di occuparmi di Gender Equality e Diversity Management nelle aziende. In secondo luogo, mettere finalmente radici e, sempre dal punto di vista lavorativo, vorrei capire se la mia tesi può diventare un bel libro. Infine, dal punto di vista privato mi piacerebbe molto sistemarmi e pensare anche alla genitorialità».
Mi spiegheresti meglio il ruolo che vorresti intraprendere all’interno di un’azienda?
«La mia figura professionale, ovvero l’esperto di gender equality, management o detto altrimenti, Diversity Equity Inclusion aziendale, si occupa proprio del welfare aziendale. Quindi far sì che i talenti che operano in un determinata azienda o ente, siano a proprio agio, self confident, liberi e libere di essere ciò che sono; non siano ostacolati nello svolgimento del proprio lavoro ma anzi siano facilitati nel farlo.
Un semplice esempio può essere quello di un’azienda che non abbia barriere architettoniche e culturali nei confronti di persone disabili che pertanto non si vedano demansionati, discriminati o che non possano fare determinate attività perché l’azienda, non avendo un approccio di Diversity Equity Inclusion, non pensa ai propri talenti disabili e non dispone di un luogo di lavoro idoneo ad accoglierli».
In che modo hai maturato questa consapevolezza considerando che il tuo percorso di studi triennale era diverso?
«La mia figura professionale non ha un percorso preciso, prestabilito all’inizio. Di Diversity Inclusion si può occupare chiunque: il laureato in economia, il laureato in giurisprudenza. Diciamo quindi che io ho fatto le facoltà che mi piacevano dedicandomi poi, soprattutto nel momento della laurea, a quei temi che più guardavano in quella direzione. Mi sono permesso il lusso di studiare quello che mi piaceva con un occhio a quello che mi piaceva ancora di più e poi, ovviamente, ho fatto un master in Gender Equality e Diversity Management presso la Fondazione Giacomo Brodolini a Roma e sto facendo un corso presso l’università di Colorado Denver online sulla leadership inclusiva».
Prima di salutarci c’è ancora qualcosa che vuoi raccontarmi?
«Si, infine, ci sono un paio di cose che voglio dire legate al messaggio che sto lanciando. La prima è che il Ddl Zan finalmente può tornare al riesame delle commissioni. Siamo in calcio d’angolo perché la legislatura sta esaurendosi e l’anno prossimo si voterà. Il mio vuole essere un po’ uno sprone ai senatori, alle senatrici, a tutti i deputati e le deputate.
C’è un profondo scollamento oggi tra la società e la politica. Questo paese è più pronto di quello che si pensa, questo paese è più avanti di quanto non lo sia la politica. La legislazione di questo paese in materia anche di diritto di famiglia è più indietro di quanto non sia invece la realtà. Ed è questo poi il secondo tema importante, il diritto di famiglia. Abbiamo bisogno di un’altra riforma del diritto di famiglia, siamo fermi al 1975, sono passati quasi 50 anni e sono cambiate tante cose. È il caso che il diritto di famiglia si adegui e che sia introdotta la stepchild adoption per legge».
Idee chiare anche per quanto riguarda la proposta di legge 306 che vuole rendere la maternità surrogata un reato universale: «Mi sembra abbastanza sciocco che un paese debba decidere cosa è legittimo o no a livello universale e in più decidere cosa sia legittimo o no rispetto a delle famiglie che ricorrono poi invece a questa pratica in paesi in cui è legale, è normata e le donne non sono sfruttate. Speriamo invece che qualcuno, dall’altro capo, stabilisca che l’omofobia è un reato universale.
Mi sarebbe piaciuto che un Ddl contro lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici fosse arrivato in aula con una rapidità tale; mi sarebbe piaciuto che si decidesse di condannare l’odio con una rapidità tale, mi sarebbe piaciuto che si fosse deciso di sancire l’amore con una rapidità tale e non di decidere cosa sia giusto e sbagliato anche per altri paesi in cui è stato già ampiamente deciso venti, trenta anni fa.
Allora, invece di nasconderci dietro questi spauracchi affrontiamo davvero ciò che lede la dignità della donna: un gender gap che oscilla tra il 16 e il 20%, un tetto di cristallo che non permette alle donne di accedere alle più alte cariche, la disparità di rappresentanza delle donne nelle cariche e in determinati ambiti lavorativi, parliamo di questo».