A un anno dalla pandemia, lo Smartworking è stato oggetto di molte discussioni. C’è chi lo preferisce e chi invece vede nel luogo di lavoro uno spazio sociale adibito a una specifica funzione, così come lo è la casa. Un papà ha voluto sollevare la questione e il suo post è diventato virale: “Trasformare il tavolo della cucina in una scrivania improvvisata, rifinire un cuore di pasta di sale nel mezzo di una conference call, mandare una mail al cliente mentre tuo figlio ti chiede le divisioni in colonna, non è smartworking.” Inizia così il post sulla sua pagina ufficiale “papà per scelta”. Non è facile, in questo momento dare il giusto spazio alla casa, alla cucina, ai figli e al lavoro, contemporaneamente. C’è un tempo e un luogo per tutto, ma con la pandemia i tempi e i luoghi si sono fusi.
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Lavorare da casa, la foto simbolo delle difficoltà di mamme e papà: «Trasformare il tavolo in una scrivania non è smartworking»
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“La dovete smettere di chiamarlo smartworking. Trasformare il tavolo della cucina in una scrivania improvvisata, rifinire un cuore di pasta di sale nel mezzo di una conference call, mandare una mail al cliente mentre tuo figlio ti chiede le divisioni in colonna, non è smartworking. Far passare l’homeworking come una grande opportunità, ma senza fare i conti con lo sbatti che implica, è una presa in giro. Se proprio vi piace l’inglese chiamiamolo STARTworking, perché sai quando inizi, ma non sai quando finisci. Oppure HARDworking per tutti quei genitori costretti alla produttività lavorativa da casa, con in più le mansioni di cura e di supporto educativo dei figli. Viene definito smartworking, non per un vezzo linguistico che ci fa diventare tutti intelligenti, ma perché comporta sostituire la presenza obbligatoria in ufficio, decidendo dove e quando lavorare. Si chiama smartworking perché la retribuzione non si basa sul tempo dedicato ad una particolare attività, ma sul raggiungimento di specifici obiettivi. Quello che invece noi facciamo da un anno è DARKworking, perché l’unica luce in fondo al tunnel è quella che lasciamo accesa la notte per recuperare il lavoro che non siamo riusciti a fare di giorno. Nei contratti regolari di smartworking si parla di diritto alla disconnessione, di diritto alla formazione, di limiti e caratteristiche del potere di controllo dei datori di lavoro, di tempi di riposo del dipendente, di strumenti utilizzati per l’esecuzione delle attività. Non basta sbandierare il diritto al lavoro agile se i nostri contratti sono ancora subordinati al numero di ore settimanali lavorate. Che cosa succede se mi faccio male in casa, nel tentativo di salvare mio figlio da una caduta rovinosa dal divano, mentre sono in call con un cliente? Lo considerate infortunio sul lavoro?
Che cosa succede se perdo una chiamata del mio capo mentre sto addormentando mio figlio? Inadempienza sul posto di lavoro?
Insomma, chiamatelo come vi pare, ma non fatelo passare per lavoro agile, perché siamo abbastanza intelligenti per capire che di smart ha solo l’esigenza di blindarci in casa per bloccare la diffusione dei contagi.”