367 giorni da quando la vita di tutti noi è improvvisamente cambiata per mano e “volontà” di un subdolo virus che si è insediato nella nostra quotidianità. Travolgendola. Era il 21 febbraio 2020 quando a Codogno è stato ricoverato in terapia intensiva il primo paziente italiano di 38 anni: da lì un’escalation di casi e di ricoveri che hanno portato i primi tre Comuni del nostro Paese (Codogno, Castiglione d’Adda e Casalpusterlengo), seguiti poi da altri, a isolarsi. “Non uscite di casa” e il 22 febbraio il Premier Conte ha firmato il primo decreto (di una lunga serie) per contenere il virus proprio lì, in quelle zone dei focolai. La prima conta dei morti, i casi in aumento e quel triste appuntamento delle 18 con Angelo Borrelli, capo della Protezione Civile, per seguire in diretta l’andamento dell’epidemia nel nostro Paese. Un incubo dal quale pensavamo di svegliarci presto. Un incubo che ancora oggi, a distanza di un anno, sembra non volerci lasciare andare.
Andrà tutto bene…un anno dopo
La fiducia nel nostro Paese, i ripetuti appelli al senso di responsabilità collettivo, le prime chiusure di università e scuole. Una realtà che ci sembrava lontana, che sembrava riguardare solo la Cina. A chilometri e chilometri di distanza da noi. Un virus che pensavamo non potesse toccare le nostre vite. Sbagliavamo. Da spettatori siamo diventati inevitabilmente e tristemente protagonisti di una battaglia che ha lasciato dietro di sé ansie, paure, preoccupazioni. Impotenza. Consapevolezza di non poter fare molto, se non seguire quelle regole che, quasi a scadenza “oraria”, ci venivano “impartite” in ogni dove.
E’ il 9 marzo del 2020 quando l’ormai ex Premier Conte firma il primo Dpcm con restrizioni estese a tutta Italia, con spostamenti limitati e consentiti per comprovate esigenze di lavoro. Ma è l’11 marzo, solo due giorni dopo, quando il nostro Paese entra di fatto in lockdown. Una serrata totale e prolungata per mesi in città spettrali, vuote, silenziose. Una realtà lontana dalla normalità, chiusa nelle mura di casa. Su un treno dove le uniche fermate erano scandite dalle stanze della nostra abitazione. Affetti lontani, attività sul lastrico, ristori inadeguati, lavoratori arrabbiati ed esasperati. Ma fiduciosi. Perché tutti ci siamo aggrappati a quell’ “andrà tutto bene” che abbiamo urlato a squarciagola, scritto ovunque e che adesso ci sembra una speranza sbiadita o strappata come quei pochi lenzuoli ancora appesi a qualche balcone. Ma a un anno dalla pandemia ci troviamo a fare i conti con altre misure restrittive.
Siamo tutti alla ricerca di una normalità che abbiamo dimenticato e che tanto vorremmo riavere. La normalità di bere un caffè, di salutare (e non con i gomiti o i piedi) i nostri affetti, di fare una passeggiata con gli amici senza mascherine e paure, di viaggiare. Di riabbracciare. In un’Italia sì a colori, ma non come vorremmo. Tra una zona rossa, gialla e arancione di una realtà ancora in bianco e nero. Nella seconda parte di un film che ci vede ancora “protagonisti” e in un “andrà tutto bene” parte due. Con la speranza che il finale sia davvero migliore.