Coronavirus, ma non solo. Ancora una storia di malasanità a Roma. Ancora una volta un anziano che, entrato in ospedale negativo al Covid, viene contagiato dopo diversi giorni di ricovero, aggravando così le proprie già precarie condizioni di salute. Ancora un paziente che non riesce a comunicare con l’esterno, ancora familiari – in questo caso una figlia unica – che non riesce ad avere notizie del proprio padre e che vaga disperata tra vari nosocomi della Capitale, tra dimissioni frettolose, nuovi ricoveri e spostamenti in strutture non adeguate. Girando per gli ospedali romani abbiamo conosciuto Luisa, che ci ha raccontato la storia di suo padre.
Il paziente viene operato per la prima volta il 23 novembre, giorno del suo 83esimo compleanno, per una rivascolarizzazione in angioplastica a un piede presso la Clinica Villa Torri di Bologna. Tornato a Roma si palesa che nonostante la ricanalizzazione effettuata, due dita del piede sono in cancrena e per questo la famiglia lo porta all’Ospedale San Camillo di Roma che lo ricovera per 8 giorni rimettendolo in maniera protetta come codice 6 in quanto, racconta la figlia, i medici sostengono che “dato che dobbiamo aspettare 5 gg per poter fare un esame angiotac è meglio che aspetti a casa per stare al sicuro dal Covid 19, tra 5 gg vi richiameremo noi. State tranquilli perché la cancrena non è settica”. Perplessa, la donna riporta l’anziano a casa, a Roma dove vive, ma passano ben 22 gg e la cancrena pertanto diventa umida, si infetta mettendo a rischio la vita di Romano.
“Ero relativamente tranquilla – racconta Luisa, la figlia – perché mi avevano assicurato che entro 5 o 6 giorni lo avrebbero richiamato. E invece le cose sono andate molto diversamente”. Il 18 dicembre, quindi dopo 21 giorni dalle dimissioni, grazie all’intervento di un altro ospedale l’uomo viene nuovamente ricoverato al San Camillo di Roma. Ma prima di andare in reparto passa 48 ore in pronto soccorso, su una brandina, accanto a un uomo che poi risulterà positivo al Covid-19.
I dottori medicano il piede di Romano, che nel frattempo è andato in cancrena, visto il tempo trascorso senza alcun intervento. “Mi hanno anche detto che non era possibile fare nulla per i successivi 10 giorni. Ho parlato con il medico che aveva in carico mio padre lì al pronto soccorso. Ecco nell’ordine ciò che ho scoperto: era all’oscuro del fatto che sulla sua gamba era già stata effettuata una rivascolarizzazione in angioplastica circa un mese prima. Non sapeva che era già stato ricoverato al San Camillo e dimesso in maniera protetta 22 giorni prima, pertanto non credo abbia avuto modo di visionare ciò che è emerso in quei sette giorni di ricovero e indagini varie”.
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“Ero relativamente tranquilla – racconta Luisa, la figlia – perché mi avevano assicurato che entro 5 o 6 giorni lo avrebbero richiamato. E invece le cose sono andate molto diversamente”. Il 18 dicembre, quindi dopo 21 giorni dalle dimissioni, grazie all’intervento di un altro ospedale l’uomo viene ricoverato al San Camillo di Roma. Ma prima di andare in reparto passa 72 ore in pronto soccorso, su una brandina, accanto a un uomo positivo al Covid-19. L’uomo positivo solo in un secondo tempo (il contatto è durato appunto 72 ore) viene messo in una stanza da solo. I dottori medicano il piede di Romano, che nel frattempo è andato in cancrena, visto il tempo trascorso senza alcun intervento. “Mi hanno anche detto che non era possibile fare nulla per i successivi 10 giorni. Ho parlato con il medico che aveva in carico mio padre lì al pronto soccorso. Ecco nell’ordine ciò che ho scoperto: era all’oscuro del fatto che sulla sua gamba era già stata effettuata una rivascolarizzazione in angioplastica circa un mese prima. Non sapeva che era già stato ricoverato al San Camillo e dimesso in maniera protetta 22 giorni prima, pertanto non credo abbia avuto modo di visionare ciò che è emerso in quei sette giorni di ricovero e indagini varie”.
“Diario” di un’agonia
Luisa riporta quanto accade in quei giorni: ha voluto “tracciare” le sue incursioni negli ospedali e i suoi tentativi di sapere cosa stesse succedendo a Romano, che fine avesse fatto, in che condizioni fosse.
“28 dicembre: Mio padre è stato spostato di camera, non è possibile più entrare in contatto con lui”. E ancora: “30 dicembre: Stanno valutando. Prevista risonanza magnetica al piede per il 7 gennaio… Hanno ammesso che non sono in grado di informare le famiglie perché sotto organico. Sono riuscita a contattarlo per telefono, ma Romano non ce la fa più a parlare”.
Il 6 gennaio ancora non è riuscita a vederlo. “Ciò che non comprendo è perché non ci sia nulla di organizzato per avvisare le famiglie, far vedere i pazienti con una videochiamata. Invece tutto tace e l’unica cosa che puoi fare è chiedere come elemosina una notizia a chiunque vedi uscire dalla porta del reparto… Io chiedevo a chiunque: Scusi lei per caso ha visto mio padre? È quel signore tutto bianco con la cancrena ad un piede”, ma la risposta era sempre la stessa: “No, mi dispiace ma io sono di turno oggi, e qui non conosco nessuno”. Dopo aver ringraziato attendi di incontrare un altro camice per ripetere la domanda…”.
L’amputazione del piede
Passa un’altra settimana e arriva la terribile ma inevitabile decisione: bisogna amputare una gamba fin sotto al ginocchio. Il piede andato in cancrena e non è salvabile. Il 13 gennaio Romano entra in camera operatoria. La figlia resta in ansia – senza alcuna notizia – tutto il giorno. “Ho immaginato che fosse ancora vivo solo perché in caso contrario mi avrebbero chiamato”, dice Luisa.
14 gennaio: Romano dopo una notte in terapia intensiva è nuovamente in reparto. È stato anche vaccinato per contro il COVID e viene posto in isolamento stretto per evitare contagi. Ogni notizia riguardo il suo stato di salute è frutto di indagini e conoscenze da parte della figlia, che non ha ancora ricevuto contatto diretto da parte della struttura sanitaria per informarla riguardo l’esito dell’intervento.
19 gennaio: Luisa riceve la telefonata dal San Camillo che la informa che il padre, nonostante il vaccino, risulta positivo al Covid. Ricordiamo che è entrato in ospedale che era negativo e si è contagiato dopo un mese e mezzo di ricovero. Luisa chiede di vedere il padre in videochiamata, ma glielo negano.
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Il giorno dopo, il 20 gennaio, Romano viene trasferito nella clinica San Feliciano. Ha una gamba amputata e il Coronavirus, è un paziente ad altissimo rischio e viene trasferito da un ospedale attrezzato a una clinica che, oltre ad avere un reparto Covid, solitamente si occupa solo di riabilitazioni motorie. Le sue condizioni sembrano stabili, non ci sono sanguinamenti dalla gamba amputata e il Covid è asintomatico. La figlia è rassicurata dal fatto che almeno in quella clinica gli infermieri rispondano al telefono, al contrario di quanto accade al S. Camillo, ma è ancora perplessa riguardo al vaccino fatto immediatamente dopo un intervento delicato come quello dell’amputazione.
Il 22 gennaio Luisa tenta di contattare la clinica San Feliciano, ma il telefono del piano dove è ricoverato Romano – caso strano – è rotto e quindi non riesce a parlare con nessuno del reparto e, di conseguenza, ad avere notizie del padre. “Si augurano di ripristinare la linea domani. Provo a chiamare il telefono di papà, senza alcun esito. Ho contattato un’altra persona ricoverata nella stessa clinica, che mi ha parlato di un “insanguamento”, poi mi ha suggerito di chiamare domani dopo le 14. È assurdo dover stare senza notizie certe. Questa pandemia ci sta facendo vivere in una condizione incredibile, senza più neanche i contatti basilari con i nostri cari ricoverati, di cui non abbiamo nemmeno le notizie sulla salute. Io non so se ha sintomi da Covid, se il moncone della gamba si è chiuso o se ancora sanguina, se mio padre sta bene o se sta male. E questo ormai da 20 giorni”.
Il 22 gennaio alle ore 23:00 l’ospedale chiama la figlia, perché Romano ha avuto un peggioramento: è in setticemia e, dal momento che il San Feliciano non è attrezzato per questo tipo di emergenze, verrà nuovamente trasferito verso un ospedale più adatto. La situazione è grave, perché con la setticemia, a cui si aggiunge il Covid, l’età avanzata del paziente e la situazione generale, si rischia la vita. “La domanda che mi pongo – dice Luisa – è: come e a chi è venuto in mente lì al San Camillo, o all’Ares, di trasferire un paziente grave, con una gamba amputata da due giorni, con tutte le patologie pregresse, a cui è pure sopraggiunto il Covid, in una struttura dove non sono attrezzati per fare niente se non riabilitazione motoria? Un paziente che si sa che se succederà qualcosa non potrà essere qualcosa di semplice? Hanno trasformato mio padre in un pacco postale. Avrei voluto poter fare più videochiamate con lui, ma in 40 giorni sono riuscita a farne solo due e adesso non so se riuscirò più a vederlo”. Il padre viene trasferito al Policlinico Gemelli, dove arriva quasi in arresto cardiaco. Luisa si reca al Pronto Soccorso dell’ospedale, dove la Dottoressa ed il rianimatore le dicono che, rispetto alle condizioni disperate in cui è arrivato, facendo 3 litri di flebo e il protocollo “rescue” il padre ha ripreso coscienza e i parametri sono leggermente migliorati. La donna torna a casa e si ripresenta al Gemelli il giorno seguente, il 23, e, con un colpo di fortuna, riesce a vedere Romano per pochi istanti, mentre una porta di ferro del pronto soccorso si apre e si richiude.
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Luisa poi perde di nuovo le sue tracce per tutto il 24 gennaio: al Gemelli infatti non risulta ricoverato nessuno che corrisponda ai dati anagrafici di suo padre. È disperata e solo attraverso amicizie e conoscenze viene a sapere che suo padre è stato trasferito alla clinica Columbus, dove è stato registrato con i dati anagrafici sbagliati.
Qui però lo scenario finalmente cambia. Risolto il problema anagrafico, la Columbus si dimostra perfettamente organizzata per gestire i pazienti in tempo di COVID. Le telefonano due volte per informarla, esiste una prassi che permette alle famiglie di far avere cose ai loro cari attraverso un punto box di raccolta e smistamento, Luisa quindi manda una lettera al padre.
Sono previste le videochiamate ed infatti dopo ben più di un mese finalmente dal reparto della Columbus arriva una videochiamata e lei riesce a rivedere suo papà che però oramai non è più in grado di parlare e l’unica cosa che può fare è il gesto di mandarle dei baci portando la mano verso la bocca.
“Avevo il terrore che fosse iniziata una nuova agonia – dichiara Luisa – un altro trasferimento, non detto ai familiari, ma invece questa volta è andata bene! Forse se papà avesse avuto subito il COVID, considerando che su di lui nonostante le precarie condizioni generali e l’età avanzata, non ha ancora particolari sintomi respiratori, magari sarebbe stato gestito meglio e oggi non rischierebbe di morire di setticemia”.
Quello di Romano non è un caso isolato: c’è stata Emanuela, Franco, Anna (nome di fantasia) e tantissimi altri. Questi sono solo i casi che abbiamo trattato personalmente negli ultimi tempi, ma ce ne sono molti altri che ogni giorno non vengono portati alla luce. Pazienti che hanno diritto alla dignità e giuste cure ma soprattutto all’umanità, che purtroppo a volte anche gli eroi possono dimenticare di avere.
Aggiornamento: Il tragico epilogo
Il 28 gennaio, nella prima mattinata, Romano muore. La cancrena alla gamba non gli ha lasciato scampo, l’infezione è andata in circolo. Qualcuno ha sbagliato le cure? Si è trattato davvero di un caso di malasanità? Poteva e doveva essere curato e assistito meglio? Poteva evitare di contrarre il Covid? O sarebbe stato meglio che si fosse ammalato subito di Coronavirus, così da poter ricevere maggiori attenzioni da parte dei medici? Al momento queste sono tutte domande senza risposta. Sarà Luisa a decidere se averle, attraverso una formale denuncia. Noi, che le siamo stati accanto per questo breve lasso di tempo, le mandiamo un abbraccio virtuale.