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Franco entra in ospedale per una ‘sciocchezza’ e muore: la storia senza eroi che ha commosso e indignato il web

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E’ entrato in ospedale “per una cosa da nulla”, ma Franco, 87 anni, arzillo seppur con qualche perdita di memoria, non ha fatto più rientro nella sua casa di Formia. Non ha potuto più riabbracciare i suoi cari perché dopo un lungo mese e mezzo è ritornato sì dai suoi affetti, ma chiuso in una bara. E’ una storia agghiacciante quella che ha raccontato Manuela sui social, uno sfogo struggente con la speranza che quello che è accaduto a suo suocero non accada ad altri malcapitati.

Franco entra in ospedale per un versamento pleurico e i due tamponi di ingresso, come ci ha raccontato il figlio, risultano negativi. Ma proprio in ospedale l’87enne si ammala di Covid e, seppur asintomatico, gli sarebbe stato prescritto uno psicofarmaco, quasi come per metterlo a tacere. Peccato che quel farmaco abbia delle controindicazioni che per Franco sono davvero dannose. Ma non finisce qui il suo incubo: Franco viene trasferito, senza avvisare nessuno dei familiari se non a cose fatte, a 150 km di distanza, in un altro ospedale. Gli viene tolta anche la possibilità di vedere, seppur tramite un tablet o un cellulare, i suoi parenti. Franco viene isolato: nonostante la famiglia provasse in ogni modo a stargli vicino, il muro che era stato eretto era impossibile da scalare. 

“Mio padre è entrato in ospedale il giovedì. Il sabato il medico mi ha detto che dovevano fare la tac prima di dimetterlo, ma che di domenica sarebbe stato complicato per carenza di personale e se ne sarebbero parlato il lunedì. Hanno atteso altri giorni e mio padre è stato contagiato: il 6 dicembre è risultato positivo. Ora siamo in attesa della cartella clinica che faccia luce su quanto accaduto”, ci ha spiegato il figlio di Franco. 

Il racconto di Manuela

“Mio suocero, Franco – 87 anni arzilli a parte un po’ di perdita di memoria a breve termine – è entrato in ospedale per una cosa da nulla e non lo abbiamo rivisto più. Domani ce lo riportano sigillato in una bara, per il funerale, dopo un mese e mezzo di follia in cui non abbiamo visto né angeli né madonne né eroi né eccellenza sanitaria né nessuna delle belle cose che si sentono in TV. Tre o quattro infermieri molto carini e disponibili, come lo sono alcuni esseri umani random, e per il resto solo tanta, tanta brutta distopia. In ospedale Franco ha preso il covid. E quindi non è uscito dopo due giorni come previsto. Asintomatico al 100%, gli è stato somministrato uno psicofarmaco così, tanto per gradire, in modo che non rompesse i coglioni al personale sanitario. Pare sia la prassi, somministrare psicofarmaci a chi non ne ha bisogno, senza avvisare, in modo che non rompa i coglioni a quelle persone che le sue tasse stipendiano. Nessuno però ha mai sentito parlare di effetto paradosso, forse all’università a punti non lo insegnano, eppure Franco comincia a comportarsi in modo strano, aggressivo, delirante. Usiamo quindi la nostra Laurea della Vita – avendo casi in famiglia di persone soggette all’effetto paradosso – e suggeriamo al personale sanitario da noi stipendiato che forse si tratta di quello. Interrotto il trattamento non necessario, Franco torna se stesso, arzillo e gentile come sempre, in attesa di negativizzarsi e tornare a casa.
Ma la notte di Natale, viene trasferito in tutta fretta a centocinquanta chilometri di distanza, senza che si avvisino i familiari, senza le sue cose, senza telefonino, come un pacco regalo che nessuno vuole. Motivazione ufficiale: nessuna. Motivazione ufficiosa: probabilmente il posto che occupava lui, vicino a casa, serviva a qualcun altro e noi non siamo nessuno, non abbiamo parenti politici, medici, camorristi, prelati. Il nostro posto è sul tram a cui ci possiamo attaccare. Nell’ospedale lontano, Franco viene messo insieme ai malati gravi, attaccati al respiratore. Non ha nessun sintomo, ma il tampone continua a essere positivo. Nell’ospedale lontano, il personale sanitario non entra nella stanza di Franco se non per lo stretto necessario, nessuno gli parla, NESSUNO acconsente ad aiutarlo a usare il tablet per fare le indispensabili videochiamate alla famiglia, come faceva nell’ospedale vicino. È impossibile sentirlo, vederlo, perdiamo ogni contatto, ci dobbiamo affidare solo alle telefonate con medici che sono puntualmente vaghi.
Franco intanto ricomincia a delirare. Ops, hanno sbagliato, hanno letto la cartella clinica vecchia in cui c’era lo psicofarmaco inutile, e quindi scusate adesso glielo togliamo di nuovo, tanto che vuoi che sia per una persona di 87 anni.
Dopo un breve miglioramento, lo scombussolamento di Franco però continua. Riusciamo a fargli una telefonata (UNA in dieci giorni) e lo sentiamo molto strano. Manda affanculo tutti, lui che è tipo maestro Shifu nella vita, smette di mangiare anche quando davanti gli viene messo lo sciù al cioccolato, che per lui è droga.
Visto che nessuno se ne frega di questo suo comportamento e nessuno sembra turbato dal fatto che non mangi e beva da due giorni (“eh non sappiamo che fare, sapete, che dite, lo leghiamo?”), usiamo la nostra Laurea della Rete e facciamo ricerche. Sul sito della fondazione Veronesi leggiamo che la dose di cortisone per gli asintomatici secondo il protocollo Covid è di massimo 6mg. All’ospedale vicino gliene davano 4mg. Chiediamo a quelli dell’ospedale lontano, risposta: 20mg. Come mai? Il medico: ah boh così. Nessuno ha mai sentito parlare dei possibili effetti negativi del cortisone ma noi sì: abbiamo casi in famiglia. Sotto nostro suggerimento, diminuiscono la dose di cortisone e noi valutiamo di farci assumere a tempo pieno, a sto punto.
Franco migliora un po’ ma non mangia più e dice che è stato abbandonato. Nessuno del personale sanitario stipendiato dalle nostre tasse acconsente a una videochiamata. Li preghiamo in ginocchio, se ne sbattono altamente le palle, in gergo tecnico. Una dottoressa dice al figlio di Franco al telefono: deve accettare che suo padre ha fatto la sua vita. Gli americani le avrebbero risposto: come no, bitch.
Ultimo atto. Ore 11 di sabato 9 gennaio. Decidiamo di andarci a riprendere Franco perché è nostro. Positivo o non positivo, è passato un mese e mezzo, è ora che torni a casa, avrà la carica virale di un lillipuziano e comunque sticazzissimi. Dottoressa del primo turno: oh si, ottima idea, si può organizzare, adesso chiamo, adesso vedo, vostro padre sta benino, in ripresa. Ore 15:00 dello stesso giorno, di persona all’ospedale lontano, dopo un’ora di macchina. Dottore del secondo turno: se spostate vostro padre, muore per strada. È in condizioni gravi.
Gravi in che senso? Stava bene tre ore fa. È covid? No non è covid, è un’infezione virale, no, batterica, no, sistemica, no, non lo sappiamo dobbiamo vedere adesso andate via che sono due ore che siamo appresso a voi. Oh, scusa se ti abbiamo disturbato, persona a cui le nostre tasse pagano lo stipendio.
Non resta che attendere, ci dicono. Attendiamo. Alle 23:30 ci chiamano: Franco non ce l’ha fatta. Torna a casa in una bara sigillata, nel pigiama in cui è uscito un mese e mezzo fa. Non ce l’ha fatta, caro dottore, in che senso?
A sopravvivere al sistema anticovid, che isola gli anziani sapendo di condannarli a morte? A sopravvivere a un trasferimento non necessario che noi familiari non abbiamo autorizzato? A sopravvivere a un bombardamento di farmaci inutili, di indifferenza umana, di medici e infermieri incapaci? A sopravvivere a un virus asintomatico preso in ospedale? Cioè, di cosa è morto, esattamente, Franco Lombardi?
Diranno, beh, di vecchiaia. Certo, se spingi un anziano giù per le scale e muore, puoi sempre dire che non ha retto l’urto a causa dell’età. E chi lo nega. Il problema della spinta, e delle scale, a chi vuoi che interessi? Siamo molto addolorati, incazzati, amareggiati e basiti per questa storia che probabilmente ci accomuna a tante persone. Soprattutto ci pentiamo per quella sera di Natale, quando Franco è stato portato via senza motivo e senza consenso – io avevo detto, chiamiamo i carabinieri. Eeeeh ma dai, i dottori ne sanno più di te, che fai, non ti affidi al nostro meraviglioso sistema sanitario con gli occhi chiusi e il cuore impavido? Ci siamo affidati, abbiamo sbagliato. Non commettete lo stesso errore. Controllate tutto e riportatevi a casa gli asintomatici a qualunque costo. Franco ci mancherà tantissimo e non meritava una fine così, nessuno la merita. Brutta, brutta distopia”. 

Non solo eroi

In questi mesi abbiamo tutti sentito parlare e parlato di medici, infermieri, personale sanitario. Li abbiamo chiamati “eroi”, li abbiamo ringraziati fino allo sfinimento e ci siamo immedesimati in tutti loro. In quei corpi nascosti da tute protettive, camici bianchi, mascherine, visiere, cuffie. E chi più ne ha più ne metta. Abbiamo cercato di capire cosa significhi lavorare bardato così e di come dietro a tutte quelle protezioni si nasconda un essere umano. Dietro a ogni medico e infermiere c’è una storia, c’è una famiglia che li aspetta a casa, ci sono dei figli che non vedono loro di riabbracciare “il loro eroe”, ci sono paure ed emozioni. Ma è altrettanto vero che i pazienti malati non sono solo numeri, non sono solo quei dati che ogni giorno finiscono tristemente nel bollettino giornaliero delle Asl o nel conteggio nazionale dei nuovi contagiati. Anche i pazienti sono persone, anche loro hanno delle famiglie, anche loro hanno una storia. Sentimenti, emozioni, paure. Siamo tutti uguali, indipendentemente dal ruolo che svolgiamo, e bisognerebbe essere gentili l’uno con altro. E farlo sempre perché ognuno di noi, ogni giorno, combatte una battaglia. Che sia il Covid o altro.
 
E quello che è successo a Franco fa male e fa riflettere: ci sono tanti “eroi” sì, persone che svolgono il loro lavoro con passione, empatia, sensibilità. Medici e infermieri che non dimenticano di avere a che fare con altri esseri umani. Ma ci sono anche altri, fortunatamente una piccola parte, che lavorano solo perché devono. Ma non perché sono guidati da uno spirito altruista. Tutt’altro. Lavorano solo perché devono guadagnare, avere a fine mese lo stipendio. Che è certo importante, soprattutto visti i tempi che corrono. Ma non l’unica cosa. E a persone così non importa instaurare, per quanto possibile, un rapporto con il paziente. Niente empatia, dolcezza, solidarietà. Franco aveva 87 anni, è vero: ma chi e perché si arroga il diritto di dire che perché anziana, una persona debba morire così? Con quale “strana” presunzione? E se il Coronavirus tende a isolare le persone, c’è anche chi quell’isolamento non fa molto per “abbatterlo”. Franco è morto nella solitudine, per la superficialità di chi non si è fermato a riflettere. Di chi ha deciso per lui, dimenticando che il cuore di Franco ancora batteva. 
Intanto, a Formia, Franco viene ricordato così: “Un campione di vita, per equilibrio educazione e serietà. In gioventù fu anche campione di calcio dal 1948 fino al 1962. Siamo in molti di Formia a ricordarlo con affetto”.

 
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