Home » News » Programmi TV e Spettacolo » 5 interessanti film fuori concorso presentati a Venezia 77

5 interessanti film fuori concorso presentati a Venezia 77

Pubblicato il

Come ogni anno l’estate si avvicina alla sua fine arrivando a settembre. Periodo di transizione che però coincide da decenni con la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, vero must per tutti gli amanti del cinema, dal semplice pubblico alla stampa, non escludendo gli stessi addetti ai lavori. Anche in questo nefasto 2020, che ha visto fermarsi il Festival di Cannes, Venezia trova la forza per rialzarsi con una 77ª edizione che sembrava impossibile da realizzare. Fortemente voluta dal direttore Alberto Barbera, Venezia 77 si distingue da tutte le altre edizioni per innumerevoli fattori che però non smorzano l’entusiasmo che ogni anno accompagna il festival cinematografico più antico al mondo.

Decine i film attesi dal grande pubblico: da Padrenostro con Pierfrancesco Favino fino a Nomadland di Chloé Zhao, passando per il giapponese Spy no Tsuma e Miss Marx di Susanna Nicchiarelli. Tanti titoli interessanti di cui potete trovare le recensioni sul sito FilmPost.it. In questo articolo andiamo a scoprire alcuni dei film più interessanti fuori concorso: cinque prodotti fuori dalle selezioni ufficiali che hanno meritato un’attenzione particolare.

Mandibules

Prima opera fuori concorso da citare è il ritorno – a poco più di un anno da Doppia Pelle, film che ha trovato poca fortuna in Italia – di Quentin Dupieux, noto anche come Mr. Oizo. Il regista e produttore discografico francese da ormai quasi vent’anni delizia il suo pubblico con opere ai limiti del surreale, caratterizzate da una comicità particolare, certamente non per tutti. A volte sottile e permeato da un’ironia che gioca con vizi e virtù della società, altre demenziale e sconclusionato: in ogni caso, però, il suo cinema prova sempre a distaccarsi dalla commedia convenzionale e a proporre sempre scelte narrative e formali che stupiscono e straniano. Mandibules, suo ultimo film presentato a Venezia 77, non è da meno ma rispetto ai precedenti lavori sembra aver trovato una dimensione capace di spingerlo verso un orizzonte comico più classico.

Sfrutta tutti gli espedienti usati in passato (l’esasperazione di ogni singolo elemento, che il più delle volte fa già ridere di per sé ma non sempre basta) ma ad essi aggiunge componenti legate ai rapporti umani che bilanciano il mix. Protagonisti sono due amici che trovano una mosca gigante nel bagagliaio di un’auto: i due iniziano presto a pensare che sia una buona idea addestrarla per ricavarci qualcosa. Le opere di Dupieux, che si trovi un senso o no ad esse, sono esperienze che non passeranno mai inosservate. Esperienze da provare almeno una volta nella vita.

Molecole

Lacci, come sappiamo, è stato scelto come film d’apertura della Mostra. Ma prima del film di Daniele Luchetti, un’altra opera aveva esordito in laguna. Molecole di Andrea Segre è infatti stato il film di pre-apertura di Venezia 77 e diversamente non poteva andare. Perché era impossibile non puntare, nell’anno in cui il mondo si è fermato, su un film ambientato proprio a Venezia durate il lockdown. Molecole nasce come documentario su Venezia, sulla sua bellezza ma soprattutto sui suoi problemi. Segre era intenzionato ad esplorare i delicati temi legati al turismo e all’acqua alta (quest’ultimo causa di danni irreparabili nell’ultimo anno). Ma durate le riprese, a febbraio, ecco che arriva la pandemia e, poco dopo, la clausura delle famiglie italiane nelle proprie abitazioni.

Il regista, bloccato in casa, ha visto così pian piano mutare parzialmente gli orizzonti della sua opera. Riscoprendo becchi filmati di famiglia e lettere, Andrea Segre cambia il registro di Molecole portando il documentario sulla sua città ad assumere toni più cupi, lasciandoci immergere nella storia del rapporto con il suo misterioso padre. Ma questo, certo, non ha cambiato le premesse pre-lockdown e difatti il film viaggia attraverso i luoghi simbolo di Venezia, una Venezia però deserta, silenziosa e per certi versi spaventosa e magica allo stesso tempo. Il documentario, già nelle sale italiane, è una delle opere italiane più intense dell’anno, capace di trasmettere una quantità spropositata di emozioni e un dolore, una sofferenza, che anche chi non conosce Venezia può sentire.

The Duke

Tra i titoli fuori concorso, in laguna c’è anche spazio per il sempre ben accetto umorismo britannico. Roger Mitchell sbarca a Venezia con The Duke, una commedia dai riflessi drammatici che prende ispirazione da fatti realmente accaduti. La storia è ambientata nella Londra del 1961: alla National Gallery viene rubato il dipinto raffigurante il Duca di Wellington. Il furto si intreccerà inaspettatamente con le vicende dei Bunton, modesta famiglia che sarà travolta da una serie di eventi imprevisti. Il film è un’opera fresca, dinamica e coinvolgente che riesce alla perfezione a mescolare i generi e a proporre un ottimo mix di risate e riflessioni, legate a tematiche sociali e personali delicate.

The Duke è pura commedia britannica, coerente col cinema di Roger Mitchell – resta Notting Hill il punto più alto – e pervasa da una leggerezza che rende scorrevoli anche le dinamiche più serie e impegnate. Senza picchi troppo alti e con uno stile sempre composto e preciso, il film è però sempre godibile e piacevole anche grazie ai dialoghi brillanti e all’avvicendarsi in scena dei suoi due protagonisti. Sono proprio Helen Mirren e Jim Broadbent ciò che più entusiasma dell’opera che sfrutta i due interpreti per render ancora più marcato – e di conseguenza spassoso – quel british style comico che non può non far scappare un sorriso.

Nak won eui bam (Night in Paradise)

Ormai da qualche anno, sdoganati definitivamente i preconcetti e abbattuti i limiti geografici (e la scorsa stagione dei premi ne è una conferma), i maggiori festival internazionali hanno il loro film coreano di turno. Un paese, la Corea del Sud, che nell’ultimo ventennio ha visto crescere in maniera esponenziale le sue produzioni e la qualità di esse, portando a casa numerose soddisfazioni tra Oscar, Leoni d’Oro e Palme d’Oro. Fuori concorso a Venezia 77 Nak won eui bam (Night in Paradise), diretto da Park Hoon-jung: nome che non suonerà nuovo visto che il regista coreano ha scritto l’ottimo I Saw the Devil di Kim Jee-woon. Il suo ultimo lavoro riprende le atmosfere cupe dei suoi precedenti film e intensifica quella violenza indiscriminata e sanguinaria che spesso abbiamo visto nelle opere coreane.

Una storia dal ritmo sempre alto e dalla tensione palpabile, che riesce anche a concedersi alcuni momenti di sentimentalismo più convenzionale. Guardando quasi esplicitamente a Takeshi Kitano (maestro giapponese del genere) e al suo splendido Sonatine, Night in Paradise è una delle più incredibili sorprese del festival. Coinvolgente, a tratti divertente e sfacciatamente pessimista e crudo, mette in scena, con una qualità tecnica e registica impressionante, il contrasto tra paesaggio e uomo, tra bellezza del cielo e del mare e crudeltà umana mossa dalla vendetta. Tra le opere da recuperare, sperando in una distribuzione in Italia.

The Human Voice

Già solo i nomi di Pedro Almodovar e Tilda Swinton basterebbero per suscitare entusiasmo e curiosità. Ispirato all’opera omonima di Jean Cocteau, The Human Voice è un cortometraggio di trenta minuti in cui succede veramente poco, il necessario per emozionare. Protagonista è una donna interpretata dalla Swinton (tra l’altro premiata durante la cerimonia d’apertura con il Leone d’Oro alla carriera): abbandonata insieme al cane dall’ormai ex amante, aspetta una chiamata dell’uomo tra un appartamento (che ricorda quello di Donne sull’orlo di una crisi di nervi) e uno spento set/teatro di posa. Passa da uno stato d’animo all’altro: dalla frustrazione all’impotenza, dalla tristezza alla disperazione. Il tutto provando sempre a mantenere il controllo, a evitare di fare pazzie e distruggere quel poco che le resta – con scarsi risultati.

The Human Voice è l’ennesimo azzardo, perfettamente riuscito, del regista spagnolo. Più teatro che cinema, più Tilda Swinton che ogni altra cosa in scena: un volto capace di comunicare senza dir nulla, di farci provare le sensazioni della protagonista – pur essendo l’attrice britannica l’esatto opposto della femminilità tipica del cinema di Almodovar. Un flusso di coscienza, pieno dall’inizio alla fine di sofferenza ma al contempo di voglia di reazione, sul quale si regge l’intero film. Almodovar riesce a dire tutto, attraverso ogni elemento scenico, senza spiegarlo. Ma le spiegazioni non servono a molto quando qualcosa puoi sentirla dentro. Perché pur con la sua assenza di trama e con il suo malinconico e teatrale monologo, con una prova attoriale così viva e realistica, The Human Voice sembra di viverlo in prima persona.

Impostazioni privacy