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Cinema. ‘Volevo nascondermi’: l’umanità dell’artista

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Nel guardare un dipinto, spesso si è portati a cercare all’interno di esso i propri pensieri, le proprie scelte, le emozioni nascoste, le quali possono essere identificate come proprie. L’artista è considerato come il banale centro di queste sensazioni, il solo portatore, colui che deve trasportare le riflessioni di coloro che ammirano i quadri. “Volevo nascondermi”, invece, ha la capacità di far rendere conto agli spettatori che l’artista non dipinge un quadro soltanto per poter far ritrovare gli altri in esso, ma per trovare la propria identità.

La pellicola è incentrata quasi completamente sulla persona, non sull’opera. Elio Germano ha saputo rappresentare l’affetto eccessivo che Ligabue possedeva verso i suoi quadri in modo magistrale. Questo attaccamento che egli sentiva nei confronti dei soggetti, molto frequentemente animali,  liberi, come il pittore sarebbe voluto essere, e feroci, come egli invece era, rabbioso verso questo mondo così annebbiato dal potere e dalla normalità da non accorgersi dell’arte, della bellezza della cosiddetta diversità, viene enfatizzato nel corso del film, tanto da far apparire il protagonista come un personaggio dei suo stessi schizzi, un animale anche lui, bisognoso di affetto, come di poter gridare, nonostante gli uomini non possano comprenderlo.

Tutto il dolore che Antonio Ligabue prova nella sua vita è presentato a strati. Questa figura ricorrente di sua madre che quasi lo teme, che cerca di respingere questo male, questo demone che immagina sia all’interno di suo figlio, quando avrebbe potuto soltanto accettare quel desiderato abbraccio che il ragazzo cerca di darle, rivela il perché del bene che egli prova nei confronti dei bambini. Li tratta come esseri superiori, forse angeli per lui, e cerca per la maggior parte della sua vita di farli sorridere, sembrando convinto che se lui non è riuscito, nel corso della sua giovinezza, a essere felice, allora essi, innocenti, dovranno esserlo al suo posto.

Con gli animali, invece, ha un rapporto differente. Li imita, ma non forzatamente. È qualcosa di spontaneo, pare voglia fare una metamorfosi e diventare finalmente uno di essi. Una di quelle creature ignare, sole, istintive eppure tanto ammirate. Si chiede perché io sono denigrato per i miei istinti? È colpa del mio semplice essere uomo?

E poi ci sono gli adulti. Queste figure diverse, con le quali Ligabue ha un rapporto in costante cambiamento. C’è la donna che ama, forse l’unica che abbia visto in lui più del pittore incompreso, più dell’irata figura che gli altri osservano per le strade infastiditi. Ella è l’irraggiungibile, colei che fa un passo avanti ma, a causa del temibile giudizio altrui e delle circostanze reali della vita, ne fa tre indietro. Ci sono i personaggi che appaiono come interessati ai suoi dipinti, ma che in verità non dimostrano alcun coinvolgimento al riguardo. Alla loro indifferenza, Ligabue risponde: “io sono un artista”, volendo intendere che egli sa cosa voglia dire abbandonare se stesso all’interno di un’opera, e che evidentemente colui che non la apprezza non comprende lo strazio del non avere altra salvezza se non quella donata da un dipinto.

Pochi personaggi diventeranno un rifugio per lui. Verrà coccolato, tanto da riempire il vuoto affettivo causato dalla madre, e sarà finalmente considerato un artista valido. Alcuni, però, si approfitteranno di lui, immaginando che egli non se ne possa accorgere. Invece si scoprirà il suo lato consapevole e responsabile, il suo saper riconoscere gli inganni. I dialoghi in dialetto incorniciano il paesaggio Romagnolo e ciascuna scena lascia una malinconica forma di tenerezza che non può essere persa. Da vedere.

Marta Venanzi

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