Torre Spaccata, e più precisamente via Pietro Romano, alla periferia est di Roma, ha trovato qualcuno, vicino, in questa appena trascorsa quarantena. Verso le 18 di sera, chi in casa, chi sul proprio balconcino appostato tra gli alti palazzi della strada, in molti hanno ascoltato, giorno dopo giorno, un giradischi risuonare dei piccoli vinili a 33 e 45 giri di Umberto.
Per qualcuno era stata una moda dei primi giorni, quando spesso si sentivano aleggiare le note dell’inno di Mameli, e Umberto, affacciato, volentieri ascoltava la musica di qualche inquilino che la proponeva alle famiglie stipate nelle case. Poi, lentamente, i suoni si sono attutiti, e sulla via, ogni giorno, per un’ora e oltre, il silenzio si è disteso ad accogliere le sole note del vecchio giradischi.
Umberto, 82 anni di vita e curiosità, si sedeva lì, sul balcone, dopo aver pensato e programmato tutto il giorno la scaletta da proporre. Molti erano dischi di una vita che forse sarebbero rimasti dimenticati in cantina se il lungo tempo della quarantena non lo avesse invogliato a ripulirla e a rinvenirne autori e sonorità che il tempo gli avrebbe nascosto ancora a lungo. In fondo erano le musiche dei tempi lunghi e sospesi che verosimilmente avevano accompagnato le stagioni di molti dei suoi coetanei, che magari erano state di consolazione durante il servizio militare e lo avevano seguito fino ai balli in casa o in balera.
Allora, pur timidamente nel timore di poter disturbare, con la sua piccola lista, i dischi appoggiati e ben ordinati su una credenza, cominciava mano a mano a farli girare, e con loro Beniamino Gigli, Paul Anka, Nini Rosso, Pérez Prado, le canzoni romanesche di Alvaro Amici, ma anche Baglioni ed altri più contemporanei, per non sembrare troppo fuori tempo.
Fuori poca gente all’apparenza sui balconi, ma poi magari qualcuno sarebbe passato a stendere i panni più volte, qualcuno, riservatamente, dalla finestra, avrebbe ricordato l’appuntamento delle 18 e poi ancora qualcun altro, con il passare del tempo, gli avrebbe accennato di non sgradire, ed anzi, anche consigliato qualche pezzo da passare.
Ebbene Umberto, già conosciuto tra i condomini per la sua amichevole e vitale presenza, anche in questi mesi ha trovato il modo di “parlare” e condividere ciò che forse diversamente non avrebbe avuto modo di condividere, coraggio di mostrare. E’ stato presente. A suo modo.
Mentre la moglie Mirella chiudeva le finestre per evitare l’eccessivo volume che sarebbe rimbombato per casa, lui ha continuato il suo concerto durato due mesi, fino a che la puntina del giradischi non si è rotta e la strada è improvvisamente ripiombata nella sua muta quotidianità.
Umberto ha una bandiera tricolore sul balcone, eppure non stona, non risuona di retorica, perché può permettersela, anche la musica dal balcone non odora della retorica della falsa partecipazione che ha visto per pochi giorni strepiti e danze di solo “amor proprio”, anche il suo viso dolce e amaro Umberto può permetterselo.
Non amo le bandiere, gli eroi acclamati nel momento in cui son costretti a rischiare la vita, biasimo le innumerevoli promozioni patriottiche che infestano le nostre giornate, le “prese a prestito” di opere d’arte per commercianti di diritti umani o per coloro che se ne fanno portavoce per l’unico scopo di propiziarsi un ritorno indietro e niente che sia innanzi. Nascere, acquistare, morire e tutto il resto scompare sarebbe il solo sottotitolo da dare.
Per fortuna che forse Umberto, ottantenne vivo come moltissimi suoi coetanei che non lo sono più solo da poche settimane, per fortuna che lui, almeno, qualcuno lo avrà scostato dal televisore selvaggio delle cronache e delle pubblicità, dall’idillio dei buoni sentimenti che si riduce solo, in fondo, al piccolo “raggiro” commerciale, lo avrà scostato con quell’unico dono che noi tutti inseguiamo e che ci viene continuamente sottratto avvelenandoci d’altro, lo ha fatto con la sua sincerità, con il suo coraggio di saper rendere ancora viva la sua giornata con gli altri, pochi, tanti, nessuno che fosse. Lui ha diritto ai suoi anni, ed anche alla sua bandiera, alla sua musica dal balcone, ai suoi occhi, molti altri, troppi, forse no.
Questa storia semplice si può ben raccontare oggi che in questa lunga pausa inaspettata si sono resi così evidenti i limiti della nostra produttività, la fragilità d’essere senza fare, oggi che questa nostra specie d’insufficienza emotiva si è così violentemente trasferita dalla perenne dimensione dell’interiorità a quella della realtà, lasciandoci ancora, come non mai, nell’incapacità di dire cosa eravamo, cosa sentiamo, cosa saremo e come non mai ci chiede ancora in cosa vogliamo sperare, confidare, in cosa vogliamo credere.