Ci sono storie che vanno raccontate. Ci sono storie che riversano nella nostra società avulsa di umanità, una miriade di sentimenti ed emozioni che spesso giudichiamo. Eh si, quando esprimiamo un giudizio o un parere molte volte non sappiamo minimamente cosa si possa celare dietro la storia di una persona e per esaltare incoscientemente noi stessi, tendiamo a denigrarla e diffamarla, talvolta anche solo perché indossa dei jeans diversi dai nostri. La storia che ha bisogno di essere letta è quella di Marco, un ragazzo di Pomezia come tutti gli altri ma “apparentemente” diverso per i nostri insensati stereotipi sociali:
“Ciao, io sono Marco e sono ritornato al mondo il 7 giugno 2018. La mia vita, però, è iniziata diversamente; per il mondo ero Veronica, agli occhi di troppi come la classica lesbica estremamente mascolina e con un sorriso stranamente malinconico. La verità è che, dietro a quel sorriso spesso stampato sul mio volto contornato da una simpatia voluta, c’era un mondo di sofferenza che mi divorava appena ero solo; appena i miei occhi esploravano quel corpo di donna che non riuscivo a sentire mio. La mia storia inizia già ai primi anni di vita quando non riuscivo ad omologarmi ai miei coetanei, mentre la mia attenzione si spostava costantemente verso giocattoli maschili e “non adatti ad una femminuccia”. Quei vestiti scelti da mia madre che, appena avuta la giusta coscienza, ho iniziato a rifiutare. Preferivo un pallone, un paio di pantaloncini e nulla che fosse rosa o adornato da fiocchetti e perline. Poi, verso i 10 anni, le mie domande iniziarono a farsi spazio durante il corso di quell’estate. Mamma mi presentò un costumino a due pezzi, perché il mio corpicino da bambina iniziava a subire i primi cambiamenti ed era “giusto” cominciare a coprire alcune sporgenze. Non volevo; perché dovevo? Volevo stare a petto nudo come tutti gli altri bambini, ma la verità è che mi confrontavo con i maschietti e quindi il ragionamento non teneva. Gli anni passavano e diventò necessario iniziare ad utilizzare il reggiseno; una tortura psicologica che mi divorava ogni giorno. Perché quelle “cose” continuavano a crescere? Perché le avevo? Non le avevo chieste e non le sentivo parte di me; non riuscivo ad accettarle. Così una certa sofferenza ha iniziato ad insediarsi segretamente in me, al punto da spingermi a sentirmi diverso dal resto a chiudermi e nascondermi dietro una simpatia ostentata; come a non voler far trasparire quel disagio che cresceva vorace. Era arrivato il momento di affrontare le scuole medie, le amichette con le loro prime cottarelle e i primi ragazzini che iniziavano a mostrare interesse. Raccontavano di chi gli piaceva, delle prime uscite e di quei primi baci trofeo. Ed io? Io non riuscivo a percepire alcuna attrazione o interesse per qualche amico o ragazzino della scuola. Riuscivo solo a capire che le ragazze dovevano uscire con i ragazzi. Ci provai, costringendomi ad uscire con qualcuno che mi invitava o diceva che gli piacevo. Seguivo l’iter che la società imponeva e che, purtroppo, ancora impone. Ogni volta era una violenza mentale che mi spingeva ad odiare sempre più quello che ero biologicamente: una donna. Tutto mi pesava; l’essere donna mi pesava. Le scuole medie finirono e l’avventura del liceo ebbe inizio. Mio malgrado, non cambiò molto; anzi, le mie coetanee cominciarono ad avere desideri ancora più intensi verso il genere maschile ed il mio livello di incomprensione arrivò all’esasperazione. Avevo solo 14 anni quando la verità mi si schiantò dentro: mi piacevano le ragazze. Mi ritrovai a dover affrontare il mondo con la semplice arma della parola, cercando di spiegare che l’omosessualità non era sbagliata; che in amore non vige nessuna regola. C’era da affrontare l’ignoranza della gente, la mentalità chiusa e bigotta della maggioranza e soprattutto coloro che si ama di più: la mia famiglia. Ero terrorizzato all’idea di dover esternare ciò che a mie spese avevo compreso, che davvero non riuscivo a sentirmi fisicamente o mentalmente attratto da un ragazzo. Mia madre non ne fu particolarmente sorpresa, a quanto pare lo aveva capito prima di me; mio padre rifiutò con un tacito silenzio, fingendo che non gli avessi detto mai nulla e limitandosi a non chiedermi lo svilupparsi della mia vita privata; mia sorella lasciò intendere la cosa come se fosse fra le più normali possibili. Eppure, nonostante quel passo enorme, ancora sentivo che qualcosa in me non andava; che quel senso di inadeguatezza ed insoddisfazione continuava a lacerarmi. Cosa c’era ancora che dovevo capire? Iniziai ad analizzarmi dall’interno e a comprendere che non solo non mi piacevano i ragazzi, ma nutrivo invidia nei loro confronti perché volevo esattamente essere come loro. Semplicemente non ero una donna; ero intrappolato in un corpo sbagliato. Una gabbia che soffocava la mia vera essenza. Era una coscienza che ancora mi appariva nebbiosa ed intanto gli anni passavano e la mia condizione mentale si aggravava; spingendomi al completo rifiuto della mia corporeità. Iniziarono le mie ricerche e a soli 20 anni scoprii del cambio di sesso. Finalmente ero arrivato all’apice del problema; finalmente, dopo tanto, mi sentii con una possibilità, sollevato. Scoppiai di gioia, ma le conseguenze mediche mi spaventavano e non di meno i pregiudizi della società. Dopo tanto ragionare, pensai fosse giusto lasciar perdere; che, magari, col tempo sarebbe andata meglio. Non fu così, la “Disforia di Genere” non ti lascia stare, ti tortura da dentro, ti divora nei pensieri. La non accettazione di me stesso aumentava vertiginosamente spingendomi a piangere di nascosto ogni qualvolta mi guardavo allo specchio o mi sentivo dare del femminile. Anche solo uscire dalle pareti di casa o a dover essere riconosciuto come donna mi portava ad avere il panico; nutrivo disprezzo verso me stesso. I vestiti diventavano sempre più larghi, come se mi ci potessi nascondere dentro; scappavo da ciò che ero. A 21 anni l’esasperazione aveva fatto razzia del mio essere, riducendomi ad uno straccio. Chiunque badasse solo alle apparenze, pensava fossi solare; insomma, l’amico simpatico che non ti fa mai mancare il sorriso. Ma quando tutto si spegneva attorno a me, tutto cambiava e restava solo la frustrazione ed il dolore. Mi convinsi e disperato mi rivolsi, attraverso una telefonata, ad una struttura che trattava la Disforia di Genere. Mi informai meglio sul percorso che avrei potuto intraprendere, quali tappe psicologiche e mediche avrei incontrato. Tutto mi divenne più chiaro e quelle paure svanirono, ero pronto ad affacciarmi verso chi ero davvero. L’ignoranza, la non conoscenza mi aveva spinto qualche anno prima a provare la rinuncia, ma adesso era tutto diverso. Settembre 2017, il mio percorso ebbe inizio. Vari appuntamenti con lo psicologo e lo psichiatra, fino ad aprile 2018 quando finalmente arrivò la tanta attesa relazione: il soggetto presenta la “Disforia di Genere”. Non è una malattia, una perversione, come tanti vogliono farla passare; non è una malattia mentale, ma un vero e proprio disagio fisico che si riversa nella propria interiorità. Dopo un ciclo obbligatorio di analisi e 2 colloqui con l’endocrinologo, a giugno 2018 iniziai la terapia ormonale. Ed eccoci al punto di partenza, sono rinato. Il percorso, ovviamente, ha avuto delle ripercussioni sulla mia vita sociale. Qualche “amico” che ha preferito allontanarsi, qualche insulto e qualche rifiuto. Insomma, prevedibile, ma ha fatto ugualmente male. Per mia fortuna, quando ne parlai a mia madre, mi ritrovai un genitore comprensivo ed amorevole che, con le sue tante attenzioni, è rimasta al mio fianco sostenendomi sia sul profilo psicologico che medico. Attualmente sono fidanzato con una ragazza che, fin dal principio, mi ha amato nonostante il percorso e nonostante l’ignoranza della società che talvolta ci travolge. Quando l’ho conosciuta mi presentai a lei come Marco e subito le spiegai della Disforia e del percorso che stavo percorrendo, ma per lei non è mai stato un problema o una limitazione; anzi, mi ha supportato ed amato esattamente per ciò che sono. Voleva e vuole semplicemente stare al mio fianco, amandomi senza riserva alcuna. Ad oggi, tutto procede per il meglio e sono a quasi 2 mesi di terapia ormonale e finalmente sono Felice. È pur vero che sono all’inizio ed ho ancora tanta strada da fare, ma sono certo che il meglio arriverà anche per me.”